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November 27, 2016
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Gianni Rivera, golden boy in bianco e nero

Il grande calciatore ha appena scritto e presentato negli USA un libro autobiografico

Marco Di TillobyMarco Di Tillo
Gianni Rivera
Time: 5 mins read

Il più grande giocatore di calcio italiano che ho visto giocare nella mia vita non vestiva i colori giallorossi della mia squadra del cuore e non era, purtroppo, Francesco Totti. In realtà quello di cui parlo io vestiva i colori rossoneri del Milan, anche se per quasi tutto il periodo in cui ha giocato lui, la televisione a colori ancora non c’era nel nostro paese e quindi i colori che si potevano vedere erano solo il bianco e nero, oltre alle varie tonalità di grigio, s’intende.

Ebbene si, il più grande per me è stato Gianni Rivera, soprannominato il golden boy. Era nato nel 1943 a Valle San Bartolomeo, un piccolissimo borgo vicino ad Alessandria, dal padre Teresio, ferroviere, e la mamma Edera, casalinga. Proprio con l’Alessandria aveva esordito in serie A nel 1958, all’età di soli quindici anni. Era un ragazzino così forte che fu subito acquistato dal Milan, allenato allora da Gipo Viani. L’anno successivo Viani divenne direttore tecnico e sulla panchina arrivò Nereo Rocco. Con il grande tecnico triestino il Giannino iniziò a vincere.

Restò al Milan per tutta la sua carriera, diventandone il capitano e il giocatore simbolo. Vinse tutto ciò che c’era da vincere e cioè tre scudetti, quattro Coppe Italia, due Coppe dei Campioni, due Coppe delle Coppe e una Coppa Intercontinentale. Con la nazionale italiana vinse una Campionato europeo ed arrivò secondo ai mondiale del ’70, battuto soltanto da Pelè e company. Fu il primo calciatore italiano a vincere il Pallone d’oro, nel 1969, se si esclude Omar Sivori che però era un oriundo italo-argentino. Vi chiederete perché io consideri proprio lui il più grande, e non per esempio Roberto Baggio, Bruno Conti, Alex Del Piero oppure lo stesso Totti. La spiegazione è molto semplice: perché il suo cervello calcistico era più avanti. Aveva capito da subito alcune cose fondamentali del gioco del calcio. La prima è che si deve giocare per la squadra e non per sé stessi. Sembra un concetto semplice eppure non tutti i giocatori la pensano così. Non c’è bisogno di andare a scomodare Balotelli o chi per lui, Credo che tutti noi che abbiamo giocato a pallone, abbiamo visto tantissimi bravi fenomeni da piazzetta, come li chiamo io, e cioè gente capace di marcare avversari su avversari, di dribblare chiunque, ma che non “vedeva” i compagni, non si interessava a loro, non partecipava al gioco collettivo. Erano bravi, ma erano soltanto dei perdenti.

gianni rivera
Il rossonero Gianni Rivera e il bianconero Giuseppe Furino durante un incontro Juventus-Milan degli anni ’70

Rivera no. Lui sapeva che tutti dovevano giocare insieme e che tutti dovevano partecipare all’azione. Non era mai sopra le righe, non era mai eccessivo. Era semplicemente utile a tutti e, quindi, perfetto. Non faceva mai un dribbling se non era funzionale al gioco, non voleva incantare la folla. Però la incantava lo stesso. Vederlo giocare a calcio era come veder giocare a tennis McEnroe oppure veder sciare Gustav Thoeni. Per lui era semplice ciò che per altri era semplicemente impossibile.

La seconda cosa che aveva capito, e vi assicuro che all’epoca non era facile da capire, era quella che doveva essere il pallone a spostarsi sul campo e non il giocatore. Allora c’era il concetto del portatore di palla, della sofferenza, del percorrere tutto il campo palla al piede. Invece lui no. Lui faceva viaggiare la palla e la faceva viaggiare bene. Con la coda dell’occhio vedeva il compagno smarcato e gliela dava sui piedi oppure sulla testa.

Famoso il suo rapporto calcistico con l’attaccante Pierino Prati. Quanti goal gli ha fatto fare di testa con un semplice lancio da quaranta metri? E quando gli altri non segnavano, allora ci pensava lui a metterla dentro. Una finta, un dribbling, un tiro nell’angolo giusto e la questione era risolta. Nel 1973 si laureò addirittura capocannoniere con diciassette reti ed era dai tempi di Valentino Mazzola che un centrocampista non vinceva quel titolo.

gianni rivera
Gianni Rivera con la maglia rossonera del Milan, contrapposto n un’azione a Giovanni Pirazzini del Foggia

Era corretto in campo e anche fuori dal campo. Mai un fallo cattivo, anche se a lui di falli gliene facevano sempre tantissimi. Mai un commento sgradevole sugli avversari o sull’arbitro. Se penso ai comportamenti di certi giocatori di oggi, mi viene da ridere. Quando ha smesso di giocare, nel 1979, ho pensato che a perderci eravamo un po’ tutti.

Quando lo avremmo più rivisto in campo un giocatore così e che importanza aveva il fatto che non giocasse nella mia squadra? Lo chiamarono Golden Boy e, in effetti, il suo calcio aveva proprio il valore dell’oro. Non tutti lo ammettevano e molti furono i suoi denigratori, compreso l’ottimo Gianni Brera che non l’ha mai sopportato e che lo chiamava “abatino” perché secondo lui faceva correre gli altri al posto suo e non combatteva molto in campo. Brera sbagliava, perché lui Rivera non lo aveva proprio capito. Anche i grandi giornalisti a volte prendono cantonate. Invece il famoso tecnico della nazionale inglese Alf Ramsey, dopo la sconfitta della sua Inghilterra contro l’Italia nel 1973, dichiarò: “Chi sono i quattro giocatori italiani più forti? Rivera, Rivera, Rivera e Rivera”.

Oggi Rivera ha settantaquattro anni e ha deciso da poco di chiudere anche la sua lunga carriera politica. E’ appena tornato dagli Stati Uniti dove ha presentato un suo bellissimo libro biografico, Gianni Rivera, Autobiografia di un campione. Ha anche pensato di iscriversi alla scuola UEFA per ottenere la licenza di allenatore e di formare un’accademia del calcio itinerante da riproporre in vari paesi del mondo, Stati Uniti compresi, naturalmente.

E vi pare che il sottoscritto che ha incontrato un sacco di gente nella sua vita, non abbia mai avuto occasione di incontrare anche il Golden Boy? L’ho incontrato sì, e anche un sacco di volte. I nostri figli più piccoli, infatti, frequentavano anni fa la stessa scuola e giocavano insieme, mentre noi partecipavamo ad incontri con gli insegnanti, feste scolastiche o celebrazioni di tipo vario. Era simpaticissimo il Giannino nazionale, dotato di grande senso dell’humour e sempre modesto e semplice. La semplicità è la virtù dei grandi. Ah, volete sapere come si chiama suo figlio che ha i capelli biondo cenere come quelli della mamma? Si chiama Gianni Rivera, incredibile ma vero, anche se, purtroppo, tra lui e il calcio c’è proprio incompatibilità totale, avendolo visto in azione sul campetto della scuola. Insomma quella storia di “talis pater, talis filius” stavolta non aveva funzionato. Magari se entrava il papà quel giorno a giocare la partita con i nostri ragazzi, qualche goal in più lo facevano, no?

Guarda il filmato delle Teche Rai su Gianni Rivera:

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Marco Di Tillo

Marco Di Tillo

Ho scritto per televisione, radio, cinema e fumetti. Sono usciti in Italia i libri gialli “Destini di Sangue”,“Dodici Giugno”, “Il palazzo del freddo”, della serie con protagonista l'ispettore romano Sangermano, “Tutte le strade portano a Genova” con l’ispettore genovese Canepa e in Usa il thriller storico “The Other Eisenhower”. Per i ragazzi ho scritto “Il ladro di Picasso”, “Due ragazzi nella Firenze dei Medici”, “Tre ragazzi e il sultano” e le favole illustrate “Mamma Natale” e “Mamma Natale e i pirati”. Sopravvivo a Roma con moglie, tre figli maschi e un cane femmina.

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