Primo Levi: testimone perché scrittore o viceversa? Questa la domanda a cui Marco Belpoliti e Ann Goldstein hanno risposto durante il loro dialogo “A Fresh View: Primo Levi’s complete works”, tenutosi all’Italian Academy della Columbia University martedì 1 novembre. Entrambi hanno descritto le nuove prospettive che i loro più recenti lavori aprono su Primo Levi: Ann Goldstein ha tradotto gran parte di The Complete Works of Primo Levi (2015), che ha curato per Liveright; Marco Belpoliti, docente e critico letterario, è responsabile dell’edizione italiana delle opere di Levi, di cui uscirà a breve, per Einaudi, una seconda edizione dopo quella del 1997.

Curare l’edizione di Levi è un aspetto fondamentale per fare emergere la personalità poliedrica dell’uomo e dello scrittore che, confessa Belpoliti, “la critica italiana non ha capito, considerandolo a lungo solo un testimone, mentre era anche linguista, filosofo politico e antropologo”. Un’opinione legata ai suoi due libri sull’Olocausto, soprattutto a Se questo è un uomo, emblematico – come testimonia la sua storia editoriale – dell’impossibilità di incasellare l’autore in una definizione univoca. Nel 1946, ricorda Goldstein, l’autore mandò la traduzione di alcuni capitoli a un cugino a Boston perché lo rivedesse, ma la prima edizione americana uscì solo nel 1959, tradotta da Stuart Wolf, “Curata male – ha detto Goldstein – non interessò nessuno”.
Nel 1961 uscì invece in paperback con il titolo infedele di Survival in Auschwitz, mantenuto fino al 2015 quando l’edizione Liveright ha ripristinato If This Is a Man. In Italia, ricorda Belpoliti, la prima edizione venne rifiutata da Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, consulenti editoriali di Einaudi, anche per la lingua usata dall’autore, che giudicarono “retorica e letteraria, diversa dall’immediatezza del Neorealismo”. Una lingua che per Levi era la sola adatta a ciò che doveva dire con quel libro. Nella ristampa che Einaudi fece nel 1958, Levi apportò delle modifiche: “L’inizio – ricorda Belpoliti – nell’edizione del ’47 è nel campo di Fossoli, in quella del ’58 tra i partigiani; vennero poi aggiunti un capitolo e circa 30 pagine”. Un lavoro che Belpoliti documenta nel suo lavoro di prossima pubblicazione: “Per risparmiare tempo, Levi presentò all’editore una copia della precedente edizione con incollati dei fogli dattiloscritti e dei numeri a indicare dove inserire le aggiunte”.

Rendere la lingua di un autore è fondamentale per chi lo traduce e in Levi, ne è convinta la Goldstein, la questione linguistica è fondamentale: “In Se questo è un uomo lui stesso crea una lingua al piccolo Urbinek, nato ad Auschwitz; inoltre, scrisse saggi sulla traduzione in cui mostra una straordinaria sensibilità linguistica”. La sua lingua è “dotata di lucidità e precisione, dovute alla sua formazione di chimico, ma mai fredda: è un osservatore scientifico mai pedante, le sue descrizioni sono meticolose, le frasi bilanciate, l’unica difficoltà sono le parole in gergo tecnico e scientifico”.
“Se nella scrittura Levi da un lato è distaccato, per spiegare con chiarezza – ha aggiunto Belpoliti – dall’altro è coinvolto, per giudicare: come all’inizio di Se questo è un uomo, dove alla durissima poesia Shemà segue la prefazione che descrive il libro come uno studio pacato dell’anima umana”. Per Belpoliti, questa era la personalità complessa di un “dilettante di genio, che poteva scrivere solo durante le ferie o nei weekend”, che va restituita nella sua totalità.
Ann Goldstein si augura che a ciò provveda l’edizione da lei curata, in cui Levi è presentato come lui presentò se stesso.

Per Belpoliti, invece, “lo scrittore va riportato nel campo dei testimoni: la sua è fiction letteraria nell’ambito testimoniale, ma al tempo stesso la sua testimonianza necessita di una certa invenzione”. L’unico libro di testimonianze dell’Olocausto ancora letto è quello di Levi perché la sua è vera letteratura, è uno scrittore politico che analizza l’aspetto animalesco dell’uomo: “Il lager è un esperimento di bio-politica che applica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo trasformandone la mentalità”.
La testimonianza di Levi è unica: sopravvisse perché analizzò, da fine psicologo, la natura umana avendone capito l’essenza. E proprio perché “la vita umana è nemica dell’infinito perché non conosce il futuro ma la morte, fine di ogni gioia e di ogni dolore”, anche nel lager, l’uomo sopravviveva a tutto, anche a se stesso.