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October 24, 2016
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Il Nobel a Bob Dylan al momento giusto come lo fu per Fo

Replica alle polemiche seguite all'assegnazione del premio al poeta cantautore americano

Carmelo FucarinobyCarmelo Fucarino
bob dylan

Bob Dylan, insignito del Premio Nobel alla Letteratura nel 2017

Time: 7 mins read

Quasi a volersi trasmettere il testimone del Nobel scomodo della letteratura il 13 ottobre 2016, più che novantenne se ne andava con i suoi sberleffi Dario Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 – Milano), che, candidato già nel 1975, aveva ricevuto l’onorificenza milionaria del Nobel 1997; lo stesso giorno i diciotto membri della Svenska Akademien of Stockholm assegnavano il Nobel Prize a Bob Dylan con la seguente lapidaria motivazione, comunicata dalla segretaria Sara Danius: «for having created new poetic expressions within the great American song tradition» («Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana»).

Come allora per Fo, apriti cielo: una valanga di infuocate, perché non dirlo, astiose critiche hanno agitato la ribalta mediatica degli addetti ai lavori, i grandi titolari di requisiti letterari e i tanti pseudo-cultori di lettere. “Era il caso di assegnare il premio così nobile ed alto ad un singer?”: questo l’assillante, tragica questione, dibattuta su quotati e prestigiosi quotidiani, cartacei e digitali, in tutti i mass-media di riferimento, nazionali ed internazionali, in affollati talkshow con interventi altolocati e toni da catastrofe universale. Inserito per anni fra i candidati, ha sbaragliato tutti con un verdetto inatteso e strabiliante. Pure il quotato Don DeLillo (che però elogia il premio a Dylan) che in questo mese furoreggia nell’isole beate delle librerie per il suo sconvolgente ed attuale Zero K, proprio in questo giro di giorni anche nelle librerie italiane (traduzione di Federica Aceto, Einaudi, Torino)? Il tema della ibernazione e della resurrezione doveva essere titolo di valore in quest’epoca in cui pressante e netto si impone il rifiuto di morire e la speranza (scientifica!) di rinascere. Ma a prescindere, così si dice, chi potrebbe mai obiettare sulla grandezza e sulla genialità creativa di Philip Roth, volto incontrastato degli States attuali, esemplare eccezionale di eterno escluso, se si vuol restare in area propriamente statunitense?

Ma andiamo per ordine: la taccia disonorevole di non essere proponibile come accademico universale di letteratura vera e propria. La stessa accusa fu rivolta a Fo, per il quale la giuria aveva stilato questa motivazione: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Ma certo chi ebbe a scandalizzarsi che un guitto, irridente e dissacratore, ma sempre un guitto di leggerezze sceniche, potesse essere innalzato ad accademico con frak per la semplice ragione letteraria di “dileggiare il potere”, poteva avere le sue giuste ragioni. Alla fine la consacrazione e la rottura di Fo era stato il suo esilarante e micidiale Mistero buffo. Di cosa si trattava? Di una improbabile rielaborazione di testi antichi espressi in grammelot, quel miscuglio recitativo di suoni, parole, onomatopee, semplici fonemi senza senso in un discorso allusivo, pertanto satirico e sferzante. In termini banali era la negazione della “parola” come referente semantico di comunicazione che qui avveniva con suoni inarticolati e storpiati, allusioni mimiche del corpo intero, mani volto corpo. Mancava la parola come contenuto di significati, era puro fonema senza semantema. La letteratura, ritengo, è esposizione di contenuti nelle sue realizzazioni umane, fonetiche, se si vuole, abitualmente grafiche (da “lettere”).

Tutto ciò è presente in Dylan, anzi alla parola nella sua pregnanza di significati, si aggiunge il sostegno più primordiale e memorizzabile del canto. Potrei scomodare Omero e la nascita della poesia (della letteratura?) occidentale con il suo epos (“parola”), oppure risalire ancora più indietro alle centomila strofe del sanscrito Mahabharata delle meraviglie, anima del popolo indiano, oppure citare con il rischio di essere blasfemo e irriverente i Salmi e i Cantici biblici e quello per eccellenza anche poetica Il cantico dei cantici, ma per non esagerare con la mia presunzione mi fermo a spezzare una lancia in favore di cantori più terreni ed umani e a noi vicini, in soccorso di un poeta statunitense. E mi si perdoni se lo faccio dal particolare punto di vista europeo, per di più italiano, diciamo più esattamente palermitano. Qui nella facciata del Palazzo dei Normanni, occupato inadeguatamente dagli odierni politicanti, spicca un’edicola e un’epigrafe, che ricorda la nascita della scuola poetica siciliana e della poesia italiana nell’Aula di Federico II.

La poesia da sempre è stata parola cantata o recitata con accompagnamento musicale; perciò l’adornarono gli strumenti come il barbiton, la phorminx, la sambyké, l’aulós o flauto e la cetra o lira tanto che le forme poetiche si definivano citaredìa o aulodìa e la poesia da allora si disse e si dice ancora lirica. Ciò non deve per nulla stupire, seppure conosciamo e amiamo Saffo per la sola parola, per di più estremamente frammentaria, perduta la trascrizione musicale di quasi tutta la poesia antica. Lo stesso possiamo dire dei melici, Stesicoro, Simonide, Bacchilide e il sommo Pindaro che si espressero in una modalità più complessa, quel particolare genere di mélos, “canto”, che si sviluppava nell’unicum dell’emméleia, parola regolata dalla prosodìa e cantata ed espressa nelle complesse evoluzioni mimetiche della danza. Fu tale poesia parte integrante delle gare ginnico-atletiche o semplicemente sportive alle Olimpiadi, alle Istmie, alle Pitiche, alle Nemee e fu di base nelle Dionisiache.

Ma per i tanti dotti di letteratura italiana potrei partire dal Canzoniere di Francesco Petrarca, che di canzoni (29), ballate (7) e madrigali (4) se ne intendeva, anche se egli lo intitolò con finezza Rerum vulgarium fragmenta. E se vi sembra troppo lontano, potrei scendere al pirotecnico Ariosto che dopo «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto», esplose in prima persona. Si trattava pur di epica, quella che gli aedi e poi i rapsodi avevano cantato al suono della lira. Sì, anche lui imbevuto di classicità. Meglio scendere a tempi più prossimi e al nostro pessimista, recentemente rivissuto da Mario Martone come Il giovane favoloso. Egli ci tenne a definire Canti le sue lamentazioni sulla vita e sull’universo. Senza musica e senza arrangiamenti di chitarre e sax, ma pur sempre canti. Anche lui troppo vecchio? E se Pascoli volle scrivere pure lui, già quasi simbolista, i Canti di Castelvecchio? Volevo concludere in sintesi: la poesia è stata ed è ancora sempre canto, sia quando il cantare è anche musica, quella dell’aedo, del melico, del lirico, del trobador sotto il balcone dell’amata o nei bacchetti di re e principi.

Perché ora volere spaccare il capello in quattro e considerare letteratura solo la prosa di scemenze poliziesche o orripilanti, ora di moda, oppure le fumoserie di versi autoreferenti, criptici o strampalati più dell’assenza della parola? La musica alla fine è stata sempre ed è ancora oggi arricchimento della parola, completamento e amplificazione delle sonorità che la parola ha per se stessa. è

Tutto diventa più chiaro e comprensibile con Dylan, come lo potrebbe essere con Jacques Prévert (Poesie, Guanda, Modena 1960). Nei due la parola è fondamentale o almeno fa parte inscindibile del ritmo e della melodia. Per di più alla fine la parola da sola può essere ed è pregnante senza la musica. Perciò pure di Dylan è uscita la raccolta dei versi The Collected Poems of Dylan Thomas: The New Centenary Edition. Ed. with Introduction by John Goodby. London: Weidenfeld and Nicolson, 2014 e si legge anche The Lyrics: 1961-2012. È la parola per se stessa, sciolta dalla musica.

La vera domanda da porsi è perché Dylan e perché oggi ai suoi settantacinque anni. Oggi, perché gli Stati Uniti si trovano ad un bivio tragico che coinvolge la loro vita democratica e gli equilibri del mondo. E i membri dell’Accademia sono sempre stati sensibili alle implicazioni degli eventi e delle situazioni politiche, mirate soprattutto le scelte dei Nobel per la pace, di recente creazione nel 1901. Nel turbinare di Trump il segnale degli Accademici è illuminante. Nulla potevano significare DeLillo o Roth o qualsiasi altro sublime letterato delle nazioni del mondo, i grandi esclusi. A parte la Beat Generation o cultura pop e tutte le ubriacature reali e metaforiche sue e nostre e dei suoi portentosi compagni on the road, a parte l’assenza da Woodstock nel 1969 e probabilmente quella da Stoccolma oggi (anche Proust non andò e lo motivò maldestramente), basta un giro nella rete e il riascolto di qualche sua canzone. Anche quelli che lo rifiutano non possono negare che nel bene e nel male è stato un protagonista che ha segnato indelebilmente la nostra vita, ha lasciato segni più eterni del tattoo. Tutti, innamoratati della sua poesia o nauseati nemici delle sue stramberie, tutti dobbiamo ammettere che siamo così, perché lui ci ha in qualche modo così plasmato, ha costruito un tassello del nostro “essere oggi” in questa società che si va dissolvendo nel nulla etico ed esistenziale.

Basta riascoltare certi brani, così per dire, la delicata e profonda Blowin’ in the wind, A Hard Rain’s A-Gonna Fall, The Times They Are A-Changin’, You Ain’t Goin’ Nowehere, Like A Rolling Stone, Mr. Tambourine Man. Ma ognuno si può creare la sua golden list.

Si può rifiutare il cantore della pace, per le sue ubriacature ciclopiche e per le sue sei donne? O che per altro? E chi se ne frega se ritira o non il premio di novecento mila dollari.

Cantate con me la sua canzone-poesia,

«How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, ’n’ how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, ’n’ how many times must the cannonballs fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’ in the wind
The answer is blowin’ in the wind…».

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Carmelo Fucarino

Carmelo Fucarino

Carmelo Fucarino, siciliano di Prizzi, dopo essersi laureato in lettere classiche nell’Università di Palermo, ha insegnato lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo classico «G. Garibaldi» della stessa città. Sensibile alla poesia, ha pubblicato liriche e dato contributi a riviste del settore letterario italiano, svolgendo un’ampia e continua attività di saggista nel campo degli studi classici. Oggi ha ampliato il suo campo di indagine alla storia locale all’etnologia e alle tradizioni popolari siciliane.

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