Qualche giorno fa, girando a piedi l’angolo del palazzo, ho incontrato un amico. Un mio carissimo amico, in realtà. Lo conosco da tanto tempo, abita nel mio stesso quartiere, frequenta gli stessi posti e le stesse persone che frequento io. Ma, come spesso succede, nonostante l’estrema vicinanza, ci si vede poco di persona, presi come siamo un po’ tutti, dai ritmi un po’ sballati e nevrotici delle nostre esistenze. Però ci messaggiamo, questo sì, ci mandiamo un sacco di sms, di veloci whatsapp, di e-mail, di foto su Instagram e chi più ne ha più ne metta. Siamo naturalmente anche amici su Facebook e spesso ci postiamo e ripostiamo a vicenda cose divertenti e anche molto interessanti.
Però vedersi di persona è un po’ raro, anzi molto raro, anzi sempre più raro. Eppure quel giorno, eccolo lì il mio amico, proprio davanti a me, sul marciapiede.
Quanto tempo è che non di incontravamo e, soprattutto, quanto tempo che non ci guardavamo negli occhi? Sei mesi? Un anno? Di più? E poi che cosa abbiamo fatto su quel marciapiede? Che cosa ci siamo detti? Poco, anzi quasi niente, in verità. Un bacio, un abbraccio affettuoso. Un velocissimo ciao. Niente. Niente di niente. Eppure era lui, era proprio lui, il mio caro vecchio amico. E quella era un’occasione unica per comunicare un po’ di persona, per dirsi delle cose, guardandoci negli occhi, finalmente. Tra l’altro eravamo entrambi rilassati, non sembravamo avere particolarmente fretta, non avevamo impegni importanti, nessuno dei due. E invece solo un velocissimo ciao. Nient’altro. Ognuno per la sua strada, a continuare la propria importantissima vita, in attesa magari della prossima e-mail o di un messaggio whatsapp.
Qualche tempo fa, alla stazione di Rovereto, ne ho incontrato un altro di vecchio amico. Lui vive oggi in un paesino in provincia di Trento, con la sua famiglia, ma un tempo, qui a Roma, eravamo davvero inseparabili, stavamo insieme dalla mattina alla sera e ne facevamo insieme di tutti i colori. Erano sette o otto anni che non ci vedevamo di persona. Ed ecco che quel giorno, per caso, ci siamo incontrati. In realtà, ora che ci penso, il suo viso non corrispondeva quasi più all’immagine che avevo nella mente. Era invecchiato, così come il mio, del resto.
Ecco, è proprio questo il punto a cui volevo arrivare. Il fatto è che, negli ultimi anni, la comunicazione dal punto di vista squisitamente tecnico è migliorata moltissimo, su questo non ci piove. È un bene? È un male? Francamente non ho una risposta precisa, però mi ricordo davvero con grande nostalgia di quei lontani periodi della mia vita quando, per dire qualcosa a qualcuno, uscivi di casa e andavi a suonargli al campanello della porta. Lui ti faceva entrare, ti offriva un caffè, magari ci si sedeva intorno ad un tavolo e si chiacchierava un po’, guardandosi negli occhi. Nel suo viso potevi trovarci tutto, ma proprio tutto. Leggevi la gioia e l’entusiasmo per qualcosa di bello che gli era appena capitato oppure la tristezza perché la ragazza l’aveva appena lasciato, la vergogna per un brutto voto in un esame, la rabbia per la sconfitta della squadra del cuore. Insomma quel viso era proprio un bel giornale illustrato pieno di situazioni diverse, tutte da cogliere all’istante. Ci leggevi tutto su quel viso, tutto quanto.
E oggi che cosa leggi davvero in un sms oppure in una e-mail? Per non parlare dei messaggi whatsapp che, a dirla proprio tutta, già la parola whatsapp mi rende nervoso? E non venitemi a dire che c’è sempre Skype, che puoi usare per guardare qualcuno che sta dall’altra parte del mondo sul monitor del computer. Non è la stessa cosa. No davvero. Questione, appunto, di pelle, di percezioni, di vicinanza fisica, di piccoli e impercettibili movimenti ed espressioni, di battito di ciglia.
Certo, è vero che se una volta dovevi telefonare a qualcuno e stavi fuori casa, potevi pure morire se non avevi gettoni per il telefono pubblico e, se invece i gettoni ce li avevi e quel qualcuno abitava dall’altra parte d’Europa, quando prendevi la linea dovevi affrettarti a dire tutte le cose importanti ed essenziali, se no andavi fallito per quanti gettoni servivano.
Credo però che, gettoni a parte, oggi si stia verificando un allontanamento graduale non solo dal contatto fisico con l’interlocutore ma, essenzialmente, proprio dal suo sguardo. La scomparsa della presenza fisica degli occhi dell’altro durante la conversazione si sta radicando così fortemente che rischiamo di diventare tutti solo amici virtuali, senza avere più l’abitudine ad incontrarsi davvero, al toccarsi, al saperci lì, uno vicino all’altro, disponibili a concedere all’amico il proprio tempo fisico e la profondità dei nostri occhi. Perché negli occhi di una persona c’è veramente tutto, si può capire ciò che sta passando in quel momento, ciò che prova davvero. Se è triste, se è allegra, se ha dei problemi seri, se è distratta. Negli occhi c’è l’anima stessa, quella che un sms non può registrare e non potrà mai capire né cogliere. Ma noi gli occhi dell’altro ce li stiamo dimenticando, anzi ce li siamo già dimenticati e tutto questo virtualismo tecnologico ha conseguenze ancora più disastrose. Ci si lascia tramite telefonino, ci si parla di cose intime tramite telefonino, si chattano con il pollice problemi di cuore, di psicologia, di speranza, di fede. Attraverso il pollice si perdono posti di lavoro, affari importanti, questioni lavorative. Ma si va anche oltre, si arriva alla costruzione stessa della vita pratica. Ecco quindi, oltre alle conversazioni virtuali, anche le vacanze virtuali. Si può partire insieme, senza mai muoverci dal divano di casa, tramite Google Earth, per San Vigilio di Marebbe oppure per Ischia e decidere poi come passare la giornata.
“Andiamo a sciare a Plan de Corones?”, basta cliccare sull’icona a destra.
“Andiamo a fare il bagno alla spiaggia di Sant’Angelo?”, icona a sinistra.
“Hai visto che bel panorama? Hai visto che bel mare? Sei stanco? Hai fame? Clicca sui ristoranti e vediamo cosa offre il menu. Tanto non costa niente, perché intanto restiamo sempre qui a casa, sul divano”. Così la nostra vita diventerà sempre più virtuale, così tanto che, generazione dopo generazione, le gambe per muoverci non ci serviranno neanche più. Basteranno solo le dita per cliccare sul mouse oppure no, neanche le dita, perché il mouse non ci sarà più. Basterà parlare, come in fondo già è possibile ora usando qualche buon software. E se anche parlare sarà faticoso, allora forse toccherà al software del pensiero, perché no? È un bene? È un male? Forse adesso la risposta ce l’ho: è un male. Ma proprio un male male, malissimo. E quelli della mia generazione, memori di come era un tempo e delle cose semplici che rendevano il vedersi di persona un evento importante davvero, dovrebbero combattere per questo, come fanno gli ambientalisti del WWF oppure come i meravigliosi Don Chisciotte che a volte si scagliano violentemente contro l’inevitabile e spesso tristissimo incedere del progresso scientifico. Poiché non sempre il progresso fa bene. Molto spesso, invece, è proprio disastroso, anche perché guardarsi negli occhi è bello. Semplice, bello, fondamentale e, naturalmente, umano.