Era appena iniziata un’estate caldissima, una delle più calde degli ultimi anni. Io avevo quasi quattordici anni e mia cugina Rossella quasi tredici. Avevamo prenotato i biglietti quattro mesi prima, attraverso l’offerta promossa da Ciao Amici, la nostra rivista musicale preferita. I nostri genitori avevano scucito i soldi un po’ controvoglia, anzi, per essere corretti, proprio un sacco controvoglia. Avevano pagato duemila lire a testa per un posto nelle poltroncine della prima balconata e, naturalmente, non gli avevamo neanche proposto le splendide poltrone della platea, che costavano invece più del triplo. Il grande evento era fissato per domenica 27 giugno 1965, alle quattro e mezza del pomeriggio.
Il giorno precedente avevamo letto sui giornali i commenti dei vari personaggi dello spettacolo. La cantante Milva, molto famosa all’epoca, aveva detto che non riusciva proprio a rendersi conto della loro bravura, supportata dall’attrice Franca Valeri che confessava che il successo di quei quattro fosse davvero un mistero. Il regista teatrale Strehler, quello che indossava sempre un dolce vita nero anche d’estate, aveva sentenziato: “Non mi convincono molto, anche se deve esserci una ragione se vanno così forte”. Ma quello che li stroncò più di tutti fu l’intellettuale per antonomasia del momento, Pier Paolo Pasolini, che aveva scritto: “Non mi so proprio spiegare il loro successo. Sono quattro giovanotti completamente privi di fascino che suonano una musica bellina. Niente di più”.
Mio zio Vittorio, il papà di Rossella, ci aveva accompagnati con la sua Opel Rekord nuova fiammante. Desiderava che tenessimo i finestrini rigorosamente chiusi, chissà perché, visto che non c’era neanche l’aria condizionata. Così l’auto non era più un’auto normale, ma si era invece trasformata in una grande sauna in movimento, una super sauna bollentissima. “È una macchina tedesca”, fu l’unica frase che pronunciò lo zio durante l’intero percorso, mentre noi continuavamo a guardarci perplessi e i nostri vestiti, intrisi di sudore, sembravano essere appena usciti dalla Piscina delle Rose dell’Eur. Quando ci lasciò davanti al cinema-teatro Adriano di piazza Cavour, lo zio era visibilmente preoccupato.
“Torno a prendervi qui alla fine del concerto”, disse tutto d’un fiato.
“Non ti preoccupare, zio. Prendiamo il tram per tornare”, risposi io.
“Ho detto che torno a prendervi. E adesso entrate subito dentro. Non restate qui fuori, è pericoloso. Ci stanno un sacco di capelloni e non si sa bene quello che può succedere”.
“Va bene”, rispondemmo noi, annuendo come bravi soldatini e non riuscendo proprio a comprendere perché lì fuori potesse essere così pericoloso. Che potevano farci quei capelloni? Toccai i miei capelli. Erano molto lunghi, molto mossi e molto scomposti. Ero forse un capellone anch’io e non me ne ero ancora accorto?
Naturalmente, dopo che la sauna mobile si fu allontanata, non entrammo subito dentro il teatro ma restammo lì, ad aspettare l’arrivo dei quattro musicisti, sperando di beccarci qualche autografo o almeno una stretta di mano e un sorriso. Faceva una gran caldo, quasi trentasette gradi e il sole picchiava forte, anche se cercavamo di proteggerci in qualche modo, sotto le grandi palme della piazza. Dopo una mezz’oretta di inutile attesa, decidemmo finalmente di entrare, felici che non ci fosse caduta in testa una noce di cocco. Non si sa mai quello che può accadere, infatti, a stare sotto una palma. Raggiungemmo i nostri posti nella prima galleria del teatro, che oggi è stato trasformato in un cinema multisala, ma allora era davvero imponente, capace di più di tremila posti a sedere. Il posto di mia cugina era perfetto e da lì si aveva un’ampia visuale del palcoscenico e di tutto il parterre.
“Guarda!”, mi disse lei, “non è Catherine Spaak quella seduta in prima fila?”.
“Dove?”, domandai io.
“Ma perché, non la vedi?”.
E no che non la vedevo. In effetti non vedevo assolutamente niente, visto che la mia sedia era collocata proprio dietro a una colonna, anche abbastanza cicciotta in verità. Per riuscire ad intravedere il palco dovevo sporgermi da una parte all’altra della colonna stessa. “A ragazzì, nun te move tanto”, disse una sorta di energumeno che stava dietro di me, facendomi subito capire come sarebbero andate a finire le cose. Alle quattro e mezza in punto iniziarono a salire sul palco i cosiddetti gruppi di supporto, e cioè i musicisti che dovevano preparare il pubblico all’arrivo dei quattro di Liverpool, i quali, nel frattempo, se ne stavano probabilmente ancora all’albergo Parco dei Principi a bere vino e mangiare pastasciutta italiana.
Ecco quindi, uno dopo l’altro, Peppino di Capri e i suoi Rockers, Fausto Leali e i suoi Novelty e infine Maurizio Arcieri e i suoi New Dada. Finalmente, dopo circa un bel po’, i Beatles arrivarono, ed era pure ora. Erano vestiti di nero, dalla testa ai piedi, camicie escluse. John Lennon aveva sulla testa il famoso cappello con visiera detto, appunto, cappello alla John Lennon. Dopo la frase gridata da Paul “ciao, Roma!”, attaccarono al volo Twist and shout e le ragazzine in platea attaccarono invece a gridare, così tanto che nessuno riuscì più a sentire niente. Così io, da dietro la colonna, intravedevo loro e sentivo a malapena le canzoni successive, I’m a loser, I feel fine, Baby is in black, I wanna be your man, A hard days’ night, She is a woman, Long Tall Sally, Can’t buy me love. Il concerto durò mezz’ora, non un istante di più. In tutto una decina di canzoni, neanche quante ce ne stavano in genere in un intero long playing. Neanche uno straccio di un bis. Solo un ultimo saluto, quello che avevamo già sentito prima: “Ciao, Roma!”.
Poteva andare meglio quel giorno, ma loro si fecero perdonare in quelli successivi. Sono stati la band più famosa del mondo e, in fondo, anche più famosa della mia vita. Ho ancora oggi tutti i loro dischi e ascolto sempre le loro canzoni. Peccato che invece non possieda più i quarantacinque giri di vinile leggero pieghevole che loro inviavano tutti gli anni agli iscritti al Beatles fan club, con gli auguri di Natale accennati al pianoforte e le barzellette raccontate da Paul. Chissà che diceva McCartney, visto che non capivo una sola parola e, soprattutto, chissà che valore avrebbero oggi quei dischetti che un giorno mia madre buttò nella mondezza, pensando che fossero solo spazzatura.