Tra gli effetti della mondializzazione il peggiore è certamente la perdita delle individualità legate al territorio. Prime fra tutte quelle legate alle risorse agroalimentari che, per secoli, hanno fatto di alcune aree dei paradisi. Un problema che riguarda la maggior parte dei prodotti agroalimentari siciliani. Come alcune specie di pesci che vivono solo nello stretto di Messina, alcune carni, e la maggior parte dei prodotti agricoli, le tipicità locali sono tante: dal pistacchio di Bronte al pomodoro di Pachino, dagli agrumi ad alcune specie di legumi, dai capperi di Pantelleria al grano (ci fu un tempo in cui la Sicilia era il granaio d’Italia, ora importiamo cereali da paesi extra UE), fino all’olio di Crastu di San Mauro Castelverde e comuni limitrofi.
Tutti prodotti che fino a qualche secolo fa erano alimenti “speciali”, che avevano qualcosa di unico e che costituivano una risorsa ineguagliabile per il territorio proprio per via della loro specificità. Ma che oggi, un po’ a causa della crisi un po’ a causa delle pressioni da parte delle multinazionali e dei centri della GDO (la Grande Distribuzione Organizzata, ovvero i supermercati) e un po’ a causa di politiche incapaci di valorizzare il territorio, rischiano di scomparire per sempre dalle tavole e dalla memoria.
Di una di queste tipicità, l’ulivo della Crastu e dell’importanza che potrebbero avere la sua produzione e la valorizzazione del cultivar, si è parlato in un convegno svoltosi nei giorni scorsi a San Mauro Castelverde. Come hanno ricordato Girolamo Cusimano, Tiziano Caruso e Rosario Schicchi, dell’Università di Palermo, in Sicilia, esistono ben 150 varietà differenti di ulivi. Ciascuna con tipicità e unicità che non si trovano in nessuna altra parte del mondo. E, ovviamente, ad ognuna di queste varietà corrisponde una diversa tipologia di olio e, quindi, un suo utilizzo e un suo mercato. Una ricchezza e un patrimonio naturale, culturale ed economico enorme: basti pensare che in Spagna, uno dei maggiori produttori di olio d’oliva che si affaccia sul mar Mediterraneo, le varietà di ulivo sono solo sette.
Eppure, spesso, di olio di Crastu sul mercato è praticamente impossibile trovarlo. Solo grazie alla tenacia e alla lungimiranza di alcuni imprenditori, qualche bottiglia fa capolino sugli scaffali di pochi negozi e sono quasi sempre destinate a mercati di nicchia (all’estero, negli USA o in Giappone, dove vengono venduti a peso d’oro, anche più di cinquanta euro al litro).
Per questo è stato lanciato l’allarme sulla perdita delle biodiversità autoctone della Sicilia e del Mediterraneo. E a farlo non sono stati solo i professori universitari che hanno preso parte al convegno dei giorni scorsi. I primi a ribadire l’importanza della valorizzazione delle tipicità locali sono stati i sindaci di diversi comuni siciliani: il sindaco di Pollina, Magda Culotta, il sindaco di Castelbuono, Antonio Tumminello, il sindaco di Tusa, Angelo Tudisca, il sindaco di Geraci Siculo, Bartolo Vienna, e, soprattutto, il sindaco del comune di San Mauro Castelverde, Giuseppe Minutilla, organizzatore dell’evento. Sono stati loro a ribadire l’importanza di questa biodiversità e a reclamare l’intervento dei governi regionale e nazionale per favorire e potenziare la filiera per la valorizzazione di tutto l’indotto. Non solo la coltivazione, quindi, ma anche lo studio delle caratteristiche di specificità e unicità, la produzione, la trasformazione e la commercializzazione di prodotti unici.
Numerosi i grandi proprietari agricoli che hanno partecipato all’evento (tra i quali l’ex presidente della provincia di Palermo, Francesco Musotto) che hanno concordato che l’aggregazione è l’unico modo per risolvere i problemi della concorrenza proveniente da molti paesi esteri, comunitari ed extracomunitari. A cominciare da quelli, come la Tunisia, che si affacciano sul Mediterraneo e che ricevono aiuti a pioggia dall’Unione Europea che, invece di tutelare la produzione dei paesi membri, continua inspiegabilmente a promuovere e agevolare l’ingresso sul mercati comunitari di prodotti provenienti da altri paesi.
Proprio nei giorni scorsi, incurante del danno che tale decisione potrebbe provocare alle economie, prima tra tutte quella siciliana, l’Europarlamento ha dato il via libera all’importazione a dazio zero di altre 35.000 tonnellate di olio d’oliva dalla Tunisia (dopo le centinaia di migliaia importate nei mesi scorsi) per il 2016. E altrettante per il 2017. Decine e decine di migliaia di tonnellate di prodotti di qualità discutibile e non controllata che, favorite da bassi costi di produzione e dallo stato di crisi in cui versa il Meridione, ostacolano non poco lo sviluppo del comparto nelle regioni italiane che si affacciano sul Mediterraneo. La decisione dell’UE ha sollevato le polemiche di molti gruppi parlamentari. Inspiegabilmente, però, questa misura ha trovato il plauso dell’unica rappresentate italiana (sebbene quasi commissariata da Junker che le ha messo accanto un esperto di sua fiducia) alla Commissione Europea, Federica Mogherini, che ha parlato di “giusto compromesso” e di “risposta più efficace per la Tunisia e di minore impatto sull’economia europea e anche italiana”.
Eppure, almeno sulla carta, il primo obbligo, l’UE e il Governo italiano non dovrebbe essere nei confronti della Tunisia, ma dei cittadini italiani: agricoltori, produttori, imprenditori, amministratori locali e ricercatori che, nonostante le misure adottate da Bruxelles, continuano a fare di tutto per far rinascere l’economia del territorio.
Al Convegno sull’olio di Crastu ha partecipato, in video-conferenza, anche un imprenditore italiano che da trent’anni vive in America e che ha fornito ottimi suggerimenti per la conquista di questo mercato (invero difficile). Una conferma che quello che sta nascendo spontaneamente (sebbene dopo anni di ricerche e di sforzi) è un nuovo sistema per la gestione funzionale del territorio, per fornire servizi per quelle imprese che non hanno le dimensioni e i volumi di produzione sufficienti per affrontare le spese per conquistare mercati esteri importanti (si pensi alla Russia e ai limiti imposti dall’UE al commercio con quello che è uno dei paesi in massima espansione) o come il Canada (mercato interessante ma dove il rischio della contraffazione dei marchi è continuo) e molti altri.
Molti di questi prodotti, però, potrebbero trovare sbocco anche sul territorio regionale, grazie al tanto auspicato (e mani realizzato) “chilometro zero”. Ancora una volta, le politiche agricole nazionali e regionali (assenti o farraginose) si scontrano con le decisioni dell’UE. Nonostante, come è emerso nel corso del convegno, la domanda nazionale e regionale di alcuni prodotti, come l’olio d’oliva, sia decisamente superiore alla produzione italiana, la concorrenza in termini di prezzo che alcuni prodotti possono fare ai prodotti locali, ha un peso non indifferente. A compensare questa disparità, in alcuni settori come quelli del comparto agroalimentare, potrebbero servire le leggi vigenti (come il dl. 182/2005), che, già oggi, impongono ai centri della GDO la vendita di una percentuale “congrua” di prodotti agroalimentari prodotti nella stessa regione. Uno strumento importante che dovrebbe servire a tutelare le tipicità locali e lo sviluppo del territorio. Ma che, fino ad oggi, non è stato utilizzato.
Da anni, da Bruxelles, vengono poste in atto misure che danneggiano, e non poco, le produzioni locali. E ciò non solo con il divieto di vendita di alcuni prodotti tipici del Mediterraneo (come le vongole di certe dimensioni, di cui abbiamo già parlato, o la produzione di alcuni tipi di formaggio tipici), ma, soprattutto, consentendo alle aziende di trasformazione locale di utilizzare materie prime e alimenti di provenienza dubbia.
Ebbene, dopo anni e anni di imposizioni e di sanzioni per garantire la “tracciabilità” (l’obbligo di informare il consumatore dell’origine e del percorso fatto da tutti i componenti dei prodotti agroalimentari), lo scorso anno la Commissione Europea ha fatto marcia indietro e ha “liberato” molti generi alimentari. In questo modo possono essere venduti in Europa (e con il marchio CE) prodotti alimentari delle cui materie prime il consumatore non conosce la provenienza (anche quando queste sono prodotte in paesi extracomunitari e, quindi, al di fuori dei controlli di qualità imposti ai produttori agricoli nazionali).
A tutto questo si aggiunge, come hanno sottolineato alcuni dei partecipanti al convengo dei giorni scorsi, la grave carenza di infrastrutture, la mancanza di strade di collegamento (in molti casi risalgono a decenni fa e gli interventi di completamento e di manutenzione sono stati ritardate dalla cattiva gestione dei fondi comunitari a livello nazionale), di linee di connessione (l’Italia è il secondo peggior paese europeo per diffusione della banda larga e in molte parti della Sicilia la connessione a Internet è ancora ai livelli di paesi sottosviluppati), la gestione delle risorse idriche presenta ritardi che non sono passati inosservati alla Commissione Europea (che infatti ha già emesso sanzioni al Bel Paese per 480 milioni di euro all’anno proprio a partire dal 2016 – somme che il governo ha già comunicato verranno richieste alle amministrazioni locali, prime fra tutte regioni e comuni), il trattamento dei rifiuti è in ritardo di decenni rispetto ad altri paesi europei: mentre in alcuni paesi la raccolta differenziata è ormai una realtà consolidata e in discarica finisce solo una percentuale minima dei rifiuti solidi urbani, in Sicilia si riesce a recuperare meno del 15 per cento dei rifiuti (e la soluzione imposta dal governo non servirà a nulla: gli inceneritori che verranno costruiti – che ammesso richiederanno non meno di cinque anni per essere completati – serviranno solo un quinto della massa enorme di rifiuti prodotta in Sicilia, 2,5 milioni di tonnellate all’anno).
Tutte ragioni che hanno impedito, fino ad ora, di valorizzare il territorio e di velocizzarne la crescita (e, magari, di consentire ala Sicilia di colmare il gap che la separa da molte altre regioni d’Italia e dalla maggior parte delle regioni europee). È questo il motivo che ha spinto molti comuni siciliani, ad unirsi (anche ricorrendo allo strumento dei Contratti di Fiume) e a lottare, insieme a tutti i soggetti locali (dagli agricoltori ai centri di ricerca e formazione fino ai produttori) per fare quello che il “Governo del fare”, fino ad ora, non è stato capace di fare.