Martedì le scuole di Los Angeles (un milione di studenti) hanno chiuso per una minaccia ricevuta via email da un sedicente jihadista. Ne riceviamo tante, ha spiegato il direttore del distretto, ma questa non potevamo non prenderla sul serio, dopo Parigi e San Bernardino. Come se gli attacchi di Parigi o San Bernardino o qualunque altro fossero stati preceduti da messaggi minatori. Come se al mondo non ci fossero migliaia di mitomani e di trolls che hanno trovato in internet un fantastico mezzo per dare sfogo impunemente alle loro patologie e frustrazioni; e come se per gli stessi terroristi non fosse comodo creare panico e disagio da migliaia di chilometri di distanza, senza alcuna spesa, alcun rischio, alcuna organizzazione, con un semplice messaggio elettronico. Infatti era un falso allarme.
Altro che società aperta, come la definì Karl Popper in un libro che, quali che fossero le sue intenzioni, ha costituito una delle basi teoriche del peggior neocapitalismo liberista. Viviamo in una società esposta: esposta alla menzogna, alla manipolazione, soprattutto alle cazzate, che come ha spiegato un altro filosofo, Harry Frankfurt, sono ancora più pericolose in quanto vuote, né vere né false, un’educazione all’indifferenza, all’amoralità.
Per la prima volta nella storia non siamo più in grado di distinguere fra esperienze concrete, pur sempre da interpretare ma che viviamo in prima persona, ed esperienze virtuali, accadute (forse) altrove e che qualcuno preseleziona e ci fornisce già accompagnate dalla loro interpretazione. Il rischio, non solo per la democrazia ma addirittura per l’etica e in ultima analisi per la nostra capacità di pensare autonomamente, è gigantesco e senza precedenti.
Penso che l’unica via d’uscita sia una maggiore familiarità con le discipline umanistiche e con i meccanismi della narrazione (o come si preferisce dire oggi: dello storytelling) e della rappresentazione. Da sempre la letteratura e l’arte insegnano a distinguere fra il necessario spazio della realtà e quello, altrettanto necessario e intrinsecamente umano, della fiction. Insegnano a dosare la quantità di empatia e di credulità che possiamo investire in una storia che sentiamo raccontare: e dalla quale impariamo, certo, però in modo diverso che da un evento vissuto. Soprattutto insegnano, la letteratura e l’arte, a confrontare i due piani, quello dell’esperienza e quello del racconto, e ad affinare nel confronto la nostra capacità di analizzare, valutare, giudicare.
Il trucco del liberismo è mescolare i due livelli: non è un caso che le sue forme narrative preferite siano i reality, il gossip e i telegiornali. Perché quando la realtà si appiattisce sulla finzione la gente diventa incapace di critica e dunque di autonomia: rassegnata a ogni sopruso, condizionata da ogni pubblicità, fa quello che i suoi programmatori decidono che faccia: piange quando le dicono di piangere, si indigna quando le chiedono di indignarsi, vota o non vota a telecomando.
“O Italiani, io vi esorto alle storie” è l’appello lanciato da Ugo Foscolo due secoli fa, nel discorso inaugurale della sua cattedra all’Università di Pavia. È oggi più pressante e attuale che mai: per sopravvivere alla società delle apparenze mediatiche, per uscire dalla bolla delle autoillusioni prima che portino all’annientamento della civiltà, occorre riconoscerne il meccanismo, tornare a essere in grado di apprendere dalla fiction sapendo che è fiction, e di rifiutare la fiction spacciata per realtà.
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