Se parliamo di salumi italiani, il culatello è un’eccellenza, la raffinatezza alla sua massima potenza. Insomma, è una leggenda dell’artigianato gastronomico nazionale. Gloria antica: è già citato in un documento del 1735. È prodotto a partire dalla coscia di maiale insaccata nella vescica del maiale stesso, in una circoscritta zona della provincia di Parma, in Emilia Romagna. È dunque un parente stretto del miglior prosciutto, ma il culatello è più intenso e delicato, meno comune. E ovviamente più costoso. Per i salumi, il culatello è ciò che per il caviale è il beluga, quello che Sean Connery – James Bond ordinava con un Dom Perignon del 1955. Come il beluga, il prezioso salume ha un esercito di fedeli estimatori in Italia e all’estero. E ha un nume tutelare che da tanti anni ne cura l’immagine, la qualità, la cultura, la storia. Stiamo parlando di una specie di santo patrono, però vivente e attivissimo. Si chiama Massimo Spigaroli. È un cuoco-ristoratore-imprenditore che ha compiuto da poco 63 anni.
C’è un episodio che, meglio di tante parole, racconta l’uomo. Quella volta che il principe Carlo si innamorò del culatello, convocò Massimo Spigaroli nel suo castello e gli chiese di produrre i suoi straordinari insaccati anche là, nel Galles. Anno 2007. “Con un certo imbarazzo – ricorda il cuoco parmense – tentai di spiegargli che il culatello si fa col cuore, ma anche col microclima, col freddo e con la nebbia che esistono solo dalle nostre parti, e solo in certi mesi. Sulle prime non la prese affatto bene, poi capì, e mi fece perfino qualche complimento. Così continuai a fare culatelli dove li avevo sempre fatti. E poi glieli spedivo”.
Spigaroli non è solo uno chef famoso e un volto noto della tv italiana fin dai tempi del grande Luigi Veronelli. È uno dei formidabili eroi locali che hanno dedicato una vita a difendere e a far conoscere nel mondo le sorprendenti specialità della tradizione italiana. Per questo è presidente di tante cose e docente richiestissimo, anche se non smania per esibirsi in pubblico e comparire sui giornali. Massimo è anche presidente del Consorzio del culatello di Zibello sin dalla nascita dell’istituzione. Il rilancio di questo nobile salume e il riconoscimento della Denominazione di origine protetta sono stati suoi splendidi successi. Almeno dieci mesi di stagionatura per le pezzature più piccole (sui tre chili). Circa 50mila pezzi prodotti ogni anno con norme rigorose e stringenti.
Spigaroli è un’autorità di livello mondiale in fatto di maiali, ma è anche un abile allevatore di oche e animali da cortile. A Polesine Parmense, sull’argine di un Po che scorre lento, silenzioso e maestoso, Massimo governa col fratello Luciano un piccolo regno del buongusto che complessivamente dà lavoro a una sessantina di persone. C’è il Cavallino bianco, ex balera con cucina, ristorante ormai storico. C’è l’azienda di famiglia che produce vini, ortofrutta, carni, salumi dai nomi noti solo agli intenditori: strolghini, fiocchi, mariole. C’è soprattutto l’Antica Corte Pallavicina, ampio castello trecentesco trasformato in un raffinato relais-ristorante, subito premiato dalla stella Michelin che ha tuttora. Eleganza d’altri tempi, quella vera, senza esibizioni o inutili sfarzi. Il tesoro è nella cantina della Corte: migliaia di culatelli appesi in un antro delle meraviglie, accanto a un museo dedicato al prodotto più nobile della Bassa. Molto approssimativamente, valgono trecento o quattrocento euro ciascuno. Ovviamente sono protetti da una robusta assicurazione contro il furto. “Qui è tutto come un secolo fa – racconta Spigaroli – abbiamo aggiunto solo l’impianto elettrico e un sistema d’allarme”.
Nell’ottimo ristorante, accanto alle belle fette di culatello, circolano piatti della migliore tradizione, a cominciare dalla faraona cotta nella terra. “È un piatto primordiale, intenso”, spiega lo chef che spesso inventa proposte innovative. Ad esempio il coniglio fatto in tre modi: saltato e croccante, la coscia disossata e farcita, la sella con fegato e rognone cotta a bassa temperatura. Il pesce di fiume è un’altra sua passione.
“Sì, la nostra cucina la chiamiamo gastrofluviale – sorride Spigaroli – Usiamo pescigatto, anguille, tinche, lucioperca, rane, storioni. La qualità delle acque del Po è molto migliorata negli anni, grazie ai depuratori”.
Ma alla fine, il protagonista della gastronomia di queste terre rimane sempre quella coscia di maiale disossata, sgrassata e insaccata che si chiama culatello. Ma che cos’è il culatello per il suo grande cultore e custode? “È un compagno d’infanzia – risponde Spigaroli – Fin da piccolo mi hanno fatto capire che non è un cibo qualsiasi. Richiede attenzione e rispetto. Tanto rispetto”.