Una carriera iniziata con gli studi americani al Boston College per poi rientrare in Italia e occuparsi delle aziende di famiglia. Marco Petrini, umbro di nascita, dal 2000 è presidente dell’azienda Monini North America, la storica azienda italiana produttrice di olio, fondata a Spoleto nel 1920. In diciotto anni nel territorio americano, la Monini è cresciuta e ha conquistato nuove fette di un mercato, quello a stelle e strisce, complesso e spesso difficile da penetrare. Marco Petrini racconta a “La Voce di New York” le difficoltà ma anche i risultati legati all’export dell’olio italiano, fronteggiando fenomeni come l’italian sounding e l’adulterazione. “Puntare sulla qualità, informare i consumatori, ed essere costanti”, sono le parole d’ordine di Petrini.
Come sarà la Monini tra 20 anni?
“Un brand consolidato che ha raggiunto grandi risultati ma che ancora può e deve crescere soprattutto nel mercato americano”.
Dal 2000, anno in cui la società Monini USA è stata cosituita, lei ne ha assunto la presidenza. Da allora quali sono stati gli obiettivi raggiunti e le strategie adottate?
“Sicuramente quelli più importanti sono stati l’aver ampliato, nelle principali città americane, la distribuzione, che prima era limitata alla ristorazione, e oggi invece comprende la grande distribuzione, i negozi specializzati. Le strategie che abbiamo adottato sono state principalmente legate alle iniziative locali, degustazioni. Per diversi anni ci siamo associati anche ad alcuni programmi televisivi di cucina condotti da Lidia Bastianich. Stiamo anche portando avanti dei corsi di degustazione di olio nelle scuole per chef per sensibilizzare la conoscenza e l’utilizzo dell’olio di oliva italiano”.
Quali sono le principali difficoltà del mercato americano?
“Le difficoltà sono legate soprattutto alla cultura. Dici Stati Uniti d’America e parli di un paese di 50 stati, diversi l’uno dall’altro, che hanno una cultura alimentare diversa dalla nostra cultura mediterranea. Se nella East Coast, con particolare riferimento a New York, c’è più conoscenza, informazione, anche se spesso un pò fuorviata del Made in Italy, rimangono delle zone vergini del paese come la West coast, il Sud, il Midwest. In queste aree, più distanti dalla cultura alimentare mediterranea, bisogna lavorare di più per sensibilizzare e informare i consumatori all’utilizzo dell’olio di oliva e dei suoi benefici”.
Sull’olio di oliva ci sono due aspetti che ostacolano il commercio e l’informazione: l’Italian sounding e l’adulterazione. Come fronteggiate questi fenomeni?
“Con la qualità. L’azienda Monini sull’aspetto della qualità non è mai scesa a compromessi. Il nostro olio extra vergine è un prodotto competitivo sul prezzo ma non cede sulla qualità. L’Italian sounding si combatte con l’informazione, la costanza e la continuità in un mercato che come quello americano, spesso si lascia guidare solo dal prezzo se non si conosce il prodotto. Ai consumatori dico che bisogna peró diffidare degli extravergini venduti a cinque dollari perchè in quel caso si tratta di oli modificati sul profilo organolettivo, sul colore”.
Secondo lei, le istituzioni italiane e americane hanno fatto e fanno il possibile per contrastare il fenomeno dell’Italian sounding?
“Hanno fatto e stanno facendo di più negli ultimi anni se pensiamo alle campagne avviate dall’ICE negli Stati Uniti, alle inchieste giornalistiche, ai controlli del’FDA che non lasciano passare oli adulterati. Bisogna lavorare con costanza puntando sull’informazione, la qualità. Noi come azienda facciamo il possibile comunicando un prodotto legato alla tradizione italiana, alla qualità”.
La Monini è stata fondata nel 1920 da Zefferino Monini e oggi continua la sua attività con la nuova generazione. Quali gli elementi di continuità rispetto al passato e come si innova un’azienda storica come questa?
“Sicuramente i primi 40 anni della Monini sono stati dedicati dalla presenza regionale puntando subito sin dall’inizio sull’olio extra vergne di oliva che è il prodotto più difficile. Dagli anni 70 in poi, l’olio Monini si è diffuso a livello nazionale ed è diventato, nella categoria extra vergine, il leader del mercato. A fine anni novanta ci siamo aperti ai mercati europei e finalmente nel 2000 siamo arrivati negli Stati Uniti. La continuità è rappresentata dal rispetto della tradizione e della materia prima ma soprattutto della qualità che è rimasta sempre ad alti livelli. Oggi la Monini destina il 35% della sua produzione all’export: Europa in testa con paesi come la Polonia, Russia, Svizzera ma anche USA, Canada e Asia. Stiamo crescendo bene anche in Cina. Nel 2001 la Monini ha investito in Australia, nel New South Wales, acquistando 700 ettari di terreni di cui 300 destinati a coltura. Abbiamo realizzato un moderno oliveto con 110 mila piante di Frantoio, Leccino, Pendolino e Coratino portate in piccole piantine dall’Italia”.
Negli Stati Uniti come si distribuisce la geografia del consumo del vostro olio?
“L’East Coast assorbe il 30% della nostra esportazione negli Stati Uniti, con città come New York, Boston e Philadelphia in testa. Nel Nord America il 60% della nostra produzione è destinata al retail mentre il 40% alla ristorazione. Prima eravamo presenti quasi esclusivamente al 100% nella ristorazione che è il settore di sbocco primario se si vuole iniziare a penetrare un mercato estero. Oggi altre città americane come Chicago sono in netta crescita o anche Los Angeles. In future puntiamo a mercati piú piccoli, a zone più rurali”.

Quali sono gli errori che le aziende italiane spesso commettono quando vogliono entrare negli Stati Uniti con i loro prodotti?
“Spesso si arriva negli Stati Uniti pensando di vincere facile perchè si è un’azienda già consolidata in Italia. Molti arrivano in America con un approccio italiano ma bisogna ricordarsi che questo paese ha regole diverse e soprattutto una cultura diversa. La cosa piú importante è capire che gli Stati Uniti non rappresentano un mercato ma diversi mercati, dalla Florida a Portland, la East e la West Coast, sono tutti stati, zone, con mentalità e culture diverse dove bisogna comunicare il prodotto con linguaggi diversi. Consiglio poi, se si vuole creare un export in America, di avere una presenza nel territorio, esplorarlo, conoscerlo, puntare sulla continuità, capire come funziona, non scoraggiarsi mai”.
Come difende Monini il Made in Italy e come sarà il brand tra 20 anni?
“Il nostro marchio si è sempre caratterizzatoper la produzione, al 95 per cento, dell’olio di extravergine di oliva. Da quando siamo presenti negli Stati Uniti, non facciamo un prodotto ad hoc per il mercato americano. Il nostro olio arriva direttamente dall’Italia, non abbiamo nessun stabilimento negli Stati Uniti se non la sede commerciale. Quello che arriva negli scaffali italiani, europei, è lo stesso che arriva negli Stati Uniti. Il nostro prodotto è autentico, di qualità. Non scendiamo a compromessi sulla qualità per soddisfare le tasche dei consumatore americano che vuole spendere meno. Tra 20 anni immagino un brand consolidato che ha già raggiunto grandi risultati ma che ancora puó e deve crescere soprattutto in un mercato americano”.

Quali sono i criteri guida per il consumatore americano che non vi conosce e vuole comprare un olio italiano?
“Quello americano è un mercato complesso dove ci sono 4 volte piú referenze di un prodotto rispetto agli scaffali italiani. A volte ci si confonde in un supermercato davanti a numerosi prodotti della stessa categoria. Purtroppo il consumatore sceglie in base al prezzo e viene confuso dalle diciture. Questo poi è il paese del marketing dove si vende l’immagine ed è qui che si insidia l’italian sounding. Solo una corretta informazione, un contatto con il territorio, può aiutare il consumatore a scegliere in base alla qualità”.
Su che cosa state puntando per differenziarvi dai vostri competitor?
“Rimane sempre forte il discorso legato alla qualità, alla storia dell’azienda e oggi stiamo puntando sulle monocultivar regionali italiani cavalcando un trend che sta iniziando negli Stati Uniti. La Monini si presenta sul mercato americano con cultivar regionali come quella siciliana (nocellara del Belice) Toscana (frantoio), pugliese (Coratina)”.
Lei ha una lunga carriera nel settore export e delle vendite. Ha studiato al Boston College e alla Monini hanno scelto lei come presidente della società americana. In che modo ha messo a servizio dell’azienda la sua esperienza e il suo percorso di studi?
“Sicuramente i miei studi in marketing e Risorse Umane al Boston College mi hanno permesso di formarmi in America e conoscere il sistema sin da giovanissimo. Dopo la laurea a Boston sono rientrato in Italia per occuparmi delle aziende di famiglia e per un anno ho lavorato anche alla Johnson& Johnson. Sono entrato a far parte dell’azienda Monini nel 1993, come export sales manager e nel 2000 l’azienda ha volute che fossi io, in veste di presidente di Monini USA ad occuparmi del mercato americano. Una grande soddisfazione per me che ho visto questa azienda crescere affidandomi il settore export”.