Mentre il Tribeca Film Festival va avanti, gli italiani e le italiane sembrano sfruttare alla grande questa vetrina mondiale. Siamo al giorno 6, e due dei tre film nostrani hanno fatto faville al festival del cinema più inn di New York. Parliamo di “The man who stole Banksy” di Marco Proserpio e “Figlia mia” di Laura Bispuri. Il primo è un documentario sul commercio dell’arte di strada, il secondo è una storia che racconta la vita di tre donne indissolubilmente legate tra loro.
“Figlia Mia” è l’incredibile storia della maternità. Da una parte Alba Rohrwacher, dall’altra Valeria Golino, due attrici degne di essere chiamate tali. Esprimono due lati del legame naturale tra madre e figlia opposti ma, infine, conciliabili. Tra questi due pilastri del cinema italiano c’è la piccola Sara Casu, la cui figura, però, proprio piccola non è. “Ci è piaciuta”, ha detto Laura durante l’intervista con La Voce di New York, “è bravissima”.
E, se proprio vogliamo citarlo, anche un quarto personaggio fa da protagonista al film, la Sardegna, che ricopre un ruolo tutto al femminile. Quelle immagini trasmettono una terra diversa da come viene raccontata al turista medio, una terra affascinante, ammaliante e accogliente, e allo stesso tempo austera e disarmante. “Io l’ho sentita una Madre Terra, nella sua primordialità. Aspetti che mi hanno interessato, in cui mi sono immersa e che ho cercato di raccontare nel film”, ci ha rivelato la regista romana.
Il film, uscito nel 2018 e già passato dalla 68esima Berlinale, ha conquistato il pubblico durante la sua première a New York. E’ stato trasmesso per la prima volta il 20 aprile, e starà sul maxi schermo di Tribeca fino al 26 aprile. C’è ancora tempo per vederlo, e ne varrà la pena.
La maternità è il perno attorno a cui ruotano storia, immagini e sensazioni. Vittoria, una bambina di 10 anni interpretata dalla strepitosa Sara Casu, vive in Sardegna con sua madre Tina – interpretata da Valeria Golino – e suo padre Umberto, l’attore sardo Michele Carboni. A turbare l’equilibrio della famiglia, è l’incontro tra Vittoria e Angelica, interpretata da una favolosa Alba Rohrwacher. Non passa molto tempo prima che si capisca che Angelica è la vera madre di Vittoria; e nemmeno quest’ultima ci mette tanto a sentire il suo attaccamento primordiale all’outsider del paesino sardo, nel suo più profondo inconscio.
L’incontro avviene nella prima scena, durante un rodeo itinerante. Tra polvere, cavalli, giostre e persone urlanti, Vittoria vede Angelica, e non riesce più a staccarsene. Tina, madre “adottiva”, inizialmente accetta di far incontrare le due prima che Angelica venda la casa e le sue bestie per trasferirsi in “continente”, in fuga dalla povertà e dalla sua vita dissoluta. Ma se ne pentirà amaramente, e quando scoprirà che la bambina e la vera madre continuano a vedersi di nascosto, non reggerà la paura di poter perdere la sua unica figlia.
Una maternità sofferta, quindi, sia quella della madre vera, che scopre l’amore naturale, con ritardo e sorpresa, sia quella della madre adottiva, che ama Vittoria come se fosse la sua bambina, ma vive con il timore di poterla perdere. Anche essere figlia di due madri così incomplete non è facile. Sara Casu, infatti, attrice che la regista è riuscita a trovare dopo “tanta ricerca”, riesce ad interpretare con grande successo quel dissidio interiore tra la sua natura più libera, ereditata per via genetica, e quella della stabilità datale dalla famiglia con cui ha sempre vissuto, che, però, rimane per il suo personaggio una “bugia”.
La capacità di Laura di dirigere questo film sta proprio in questo. Riuscire a raccontare una storia così sofferta, da tre punti di vista diversi, facendoci sapere in ogni momento cosa provano i tre personaggi, non era facile. Ciascuna è comprensibile nella sua angoscia e nel suo intimo, e chi guarda la trama svolgersi è trattenuto nella speranza che le tre protagoniste riescano a trovare un modo per convivere con il filo che le lega indissolubilmente, e curare la loro sofferenza, l’una attraverso l’altra.
Da una certa prospettiva, in questo senso, il film parla così della forza femminile e del legame di vita che unisce ontologicamente una madre con una figlia. Infatti, in una trama del genere, il padre di Vittoria, Umberto, riesce a trovare poco spazio. “Che ruolo ha nella vita di sua figlia?” abbiamo chiesto ad Alba e Laura.
“Ha il ruolo che in tutti i film italiani ha la madre. La madre è la sicurezza”, ha risposto Alba, “penso che Vittoria, con lui, abbia l’unico momento di amore limpido, non combattuto, non cercato, non sorprendente, come capita invece con Angelica, non desiderato”. Su questo è intervenuta anche Laura. Il suo ruolo “è un doppio spiazzamento. E’ una delle cose che difendo di più”, ha detto la regista. “E’ vero che esiste il cliché dei personaggi maschili predominanti, contorti, e sullo sfondo le donne che accudiscono, che sono dolci e stabili”.
Ma “Figlia Mia” è un film che va oltre questi stereotipi, di cui il cinema italiano è saturo. Non c’è volontà di rappresentare il matriarcato sardo, né quella di sminuire il ruolo maschile. Il padre ha – “semplicemente” e realisticamente – “già fatto il percorso che Tina farà alla fine del film. Crede che sia giusto che questa bambina scopra la verità, di avere due madri, e abbia a che fare con Angelica”, ci ha detto Laura.
E mentre Tina è ossessionata dalla perdita di Vittoria, e deve crescere interiormente prima di lasciar andare l’idea di possesso che la lega a lei, Umberto invece, “dall’inizio del film, è convinto che questa bambina debba avere la storia nelle sue mani”. Non è un’assenza. “Quando c’è, ha una presenza, una dolcezza e una purezza pazzesche. Padre e figlia si capiscono senza parlare, con un abbraccio, con uno sguardo. Umberto è uno che ha capito Vittoria. E, quindi, nella sua piccolezza, ha ricoperto un ruolo meraviglioso”, ha terminato.
“Questo ribaltamento è interessante. Già è spiazzante vedere un film al femminile, e in più, il ruolo maschile è la messa in scena di una tipologia di uomo che raramente viene visto nel cinema italiano”, ha aggiunto Alba.
Un film che, quindi, colpisce soprattutto per la rottura con tutti i luoghi comuni. Ad una spettatrice che viene dalla Sardegna, colpisce soprattutto la demolizione di quella prospettiva turistica dell’isola che viene solitamente raccontata. Durante la première, Laura, ha raccontato di aver speso due anni in Sardegna, per studiarne il territorio e la cultura. E, durante la nostra intervista, ha ribadito il suo interesse verso la popolazione, gli usi, i costumi, l’attaccamento all’identità e il dissidio interiore che penetra ogni isolano tra la voglia di aprirsi al mondo e quella di restare isolato.
Anche il territorio ha fatto la sua parte. “Questi paesaggi sono disarmanti, forti e prepotenti e hanno secondo me delle linee vicine hai personaggi”, ha detto durante l’intervista, confessando di essere rimasta colpita perché, allo stesso tempo “hanno anche una certa malinconia” e, secondo lei, “sanno di maternità”. Tutto il film è ambientato nella zona di Cabras, e l’unico “tradimento del territorio” è stato quello di aggiungere allo scenario il Supramonte, lontano dalla zona di Oristano. “E’ una licenza poetica che il cinema, ogni tanto, può fare nel momento in cui rispetta tutto il resto del territorio”, ci ha rivelato. Ma, per il resto, la descrizione dell’isola, non potrebbe essere stata fatta meglio.
A far da sfondo alla storia, viene rappresentata con naturalezza anche la povertà e la semplicità della vita quotidiana del paesino sardo, riconoscibile istantaneamente in pochi gesti e in poche parole da chi quella realtà l’avvissuta.
Tra un “bellixedda” detto amorevolmente da una nonna nei confronti della nipote, tra le pardule mangiate davanti alla tv, il lavoro duro delle due attrici per sviluppare l’accento sardo, la scelta di comparse sarde che aggiungessero naturalezza alle scene quotidiane, la regista è riuscita a buttare lo spettatore nell’ottica di una Sardegna sconosciuta alla maggior parte degli stranieri, ma anche degli italiani.
Anche questa categoria è stata rappresentata, perfettamente, nel film. “Nel gioco di contaminazione tra attori e persone reali, ho voluto anche includere la presenza dei molti stranieri che si sono trasferiti e hanno vissuto nell’isola per molti anni”, aveva dichiarato la regista. Con questo proposito, è stato scelto Udo Kier per il ruolo di Bruno, un tedesco che parla un italiano maccheronico e vive in Sardegna, occupandosi di cavalli.
Sulla cultura sarda si è calata anche Alba Rohrwacher, che ci ha chiesto durante l’intervista se fosse riuscita ad interpretare bene l’accento sardo. Non perfettamente, in realtà, ma di fronte alla grandezza del suo personaggio e al contorno delle descrizioni, è risultato un aspetto del tutto irrilevante. E’ riuscita a fare molto di più, facendoci intendere il suo personaggio a tutto tondo, in soli 100 minuti di film.
“Sono come la terra quando piove”, dice alla figlia – cercando di convincerla ad entrare in una strettoia -, trasmettendo allo spettatore lo stesso nodo in gola che fa scoppiare il cuore di Angelica in quella scena.
“E’ stato un lungo lavoro, su un personaggio che è molto lontano da me. Abbiamo fatto un grande lavoro sul corpo, sul modo di parlare, sul modo di esprimere i sentimenti, e cercare un personaggio che non fosse solo respingente ma che avesse dei momenti in cui potesse anche coinvolgere nella sua storia”, ha rivelato Alba durante l’intervista.
E, spiegandoci il suo ruolo, “Angelica non è leggera, la sua è una leggerezza solo apparente”, ha detto. “Lo trovo un personaggio molto pesante. Conosco persone così, di apparente esuberanza, ma che poi, in realtà, nascondono ferite e vuoti. E Angelica ha proprio dei buchi neri”.
Infatti, il suo personaggio, che sembra spazzare via ogni preoccupazione con un semplice canto, “è la stessa che nei bar sta con il primo che capita, è strafatta di alcool, infila quasi la bambina nel buco. E’ un personaggio molto cupo, che ha dei momenti di apertura come se fosse investita di sentimenti, ma alla fine non è in grado di riconoscere. Capirà solo alla fine, come sentirsi amata e provare amore in una maniera pura verso un altro essere umano. Solo alla fine scoprirà la reciprocità dell’amore, del sentimento tra madre e figlia, che è gratuito”, ha terminato Alba.
Ed è riuscita a farlo capire perfettamente. Incredibile anche l’interpretazione di Valeria Golino, che però non è presente durante il festival. “Ci sono stati momenti durante le riprese in cui non mi piacevo: non mi piaceva Tina e non mi piacevo io. Non mi piaceva Tina per come si comportava, oppure non mi piacevo io per come riuscivo a interpretarla. Ero di cattivo umore, cercavo il modo di comprendere il personaggio per poi cercare di raccontarlo, e non ci riuscivo”, aveva dichiarato in un’intervista durante il festival di Berlino, sottovalutandosi. Anche il suo personaggio, per quanto austero, riesce a trasmettere empatia nello spettatore. Quale madre, buttata in una trama del genere, non finirebbe ossessionata dal terrore di perdere la propria figlia?
Quello che emerge da questo film, quindi, è la maternità a tutto tondo. L’amore naturale verso un figlio, la paura della responsabilità di crescerlo, e quella di perderlo, tutti aspetti presenti in qualsiasi madre. E’ così che Angelica conquista, “anche quando vedi che sta per fare delle cose alla bambina che ti fanno dire ‘oh mio Dio, no’, in realtà la ami, la ami sempre”, ha detto Laura. E allo stesso modo conquista anche Tina. E anche Vittoria. Perchè sono le tre facce indissolubili dello stesso rapporto d’amore, e, tutte e tre, sono raccontate con un incredibile talento.