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Anno veramente amaro quello appena passato? Per fortuna che c’è l’amaro italiano

Gli amari italiani hanno una storia secolare e nel nuovo millennio sono un fenomeno bello e interessante, in cui il Sud è tornato protagonista

Mauro BassinibyMauro Bassini
Anno veramente amaro quello appena passato? Per fortuna che c’è l’amaro italiano

La foto d'ingresso nel sito internet dell'amaro dell'Etna "Amaranca"

Time: 4 mins read

Ci voleva un goccio di amaro per portare un po’ di dolcezza in questo nostro inverno del buongusto, che la pandemia sta rendendo sempre più lungo e insopportabile. Sono anni memorabili per gli amari italiani, i digestivi, gli infusi di erbe e di radici, i preziosi distillati che spuntano in piccole aziende di ogni regione.

Sono italiani gli amari che, da qualche tempo, vengono regolarmente premiati come i migliori del mondo dalle giurie internazionali più autorevoli. Dal 2018 a oggi, al concorso più famoso del pianeta, il World liqueurs award di Londra, hanno trionfato il siciliano Amaranca e i calabresi Jefferson e Rupes. È un piccolo boom senza precedenti che sta rivoluzionando tradizioni, abitudini, strategie commerciali. Nei ristoranti, a fine pasto, la grappa e il whisky cedono sempre più il passo ai digestivi made in Italy, più o meno scuri, più o meno amari e profumati. È la riscossa di una tradizione antica e profonda che si ripropone con idee, gusti e tecniche moderne.

La storia aiuta. E la storia degli amari è ampiamente italiana, da quasi due secoli. Nel 1848 un farmacista bolognese, Ausano Ramazzotti, creò a Milano il primo drink completamente privo di vino. Quell’amaro che porta il suo cognome, Ramazzotti, compare ancora oggi tra i classici del suo affollato genere, accanto al Fernet Branca, altro milanese che nacque qualche anno dopo, e accanto a marchi altrettanto celebri come Averna, Montenegro, Antico Amaro del capo, Lucano, Cynar, Braulio. Tutti hanno retto a una lunga storia di trionfi e rovesci, dalle fortune di inizio secolo alla crisi del periodo compreso fra le due guerre mondiali, fino alla rinascita, per nulla lineare e costante, che ebbe inizio negli anni Cinquanta del Novecento.

La tecnica e la fantasia degli amari italiani non si sono mai fermate. Genziana, china, agrumi, anice, liquirizia, cardi, noci, alloro, centinaia di varietà di altre erbe, di fiori e di radici hanno prodotto meraviglie del gusto e qualche miracolo imprenditoriale, spesso fragile anche quando pareva robusto. La storia italiana è piena di curiosi esempi. Uno per tutti: la notorietà dell’Amaro Lucano, creato da Pasquale Vena nel 1884, esplose durante il regno di Vittorio Emanuele III che lo preferì all’Averna come bevanda ufficiale della Real Casa. E allora la Real Casa non era un influencer di poco conto.

Gli amari italiani del nuovo millennio sono un fenomeno bello e interessante, in cui il Sud è tornato protagonista. Il successo di certi nuovi prodotti premia la creatività di personaggi a volte straordinari, sorretti da una passione e da una cultura solidissime, a volte maniacali. Mi viene in mente un imprenditore romagnolo che non produce amari di tipo tradizionale, ma raffinati prodotti (vermouth, gin, bitter) che, nella mixologia e perfino nell’alta cucina degli ultimi anni, hanno guadagnato un ruolo sempre più rilevante. Baldo Baldinini è una sorta di alchimista, ricercatore inquieto, mago delle essenze. Cominciò occupandosi di profumi (ad altissimo livello) per poi virare sui distillati e sugli alcolici. Alcuni celebri chef italiani lo considerano un talento raro e un complice prezioso.

Un altro singolare personaggio, sempre agli antipodi della banalità, è Ivano Trombino, fondatore di una piccola azienda calabrese che si chiama Vecchio magazzino doganale. Sei anni fa creò il Jefferson, un miracoloso mix di scorze d’agrumi e erbe aromatiche che nel 2018 fu premiato come migliore liquore amaro del mondo. Difficile pensare a un prodotto alcolico che sappia esprimere, con altrettanto equilibrio, la profondità e la complessità dei gusti e degli aromi mediterranei. Crescono ogni giorno i buoni ristoranti che lo propongono.

Col Jefferson partì la riscossa del Sud e della sua tradizione liquoristica che, più recentemente, ha portato sul tetto del mondo un altro amaro calabrese, il Rupes: finocchietto, liquirizia, scorza d’arance in un sapiente mix di 30 erbe affinato in barriques di rovere. Trenta gradi di alcol. Le sue origini risalgono all’inizio dell’Ottocento, a Roccella Ionica. La ricetta, ovviamente segreta, è stata tramandata per quattro generazioni prima che fosse avviata una produzione (mai eccessiva) sufficiente alla commercializzazione.

Tante piccole aziende, non solo in Calabria, predicano e praticano questo magnifico modo di lavorare: grande attenzione per le materie prime, tecniche modernamente antiche, rispetto meticoloso della qualità in ogni passaggio produttivo. È una grande lezione, non solo per chi produce alcolici.

Dunque, se le bordate della pandemia non ci hanno ancora restituito completamente il piacere di stare a tavola, consoliamoci con un goccio di ottimo amaro. In fondo gli elisir, che sono i bisnonni dei digestivi di oggi, nacquero per curare i mali del fisico e della mente, fin dall’epoca degli alchimisti arabi e perfino ai tempi di Ippocrate. La storia ha sempre qualcosa da insegnarci, anche in tempi difficili come questi.

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Mauro Bassini

Mauro Bassini

Mauro Bassini è un giornalista di Bologna. Dal 1977 lavora per il gruppo di quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione- Il Giorno. Da sempre si interessa di buona tavola e libri antichi. Con Minerva Edizioni ha pubblicato diversi libri sui ristoranti e sulla grande tradizione gastronomica emiliana. Il suo piatto preferito? Le tagliatelle al ragù

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