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Il successo del Prosecco in America? Non voler essere Champagne

Intervista a New York con Stefano Zanette, Presidente del Consorzio Prosecco D.O.C.

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Il successo del Prosecco in America? Non voler essere Champagne

Stefano Zanette, presidente del Consorzio Prosecco D.O.C., alla Scuola Eataly di New York

Time: 9 mins read

Negli scorsi giorni, si è celebrata la settimana del prosecco, con diverse aziende italiane del vino con le bollicine che hanno organizzato manifestazioni in giro per il mondo. Qui a New York, il Consorzio del Prosecco Doc, ha presentato agli americani una selezione delle aziende più quotate. A La Scuola di Eataly Downtown Manhattan, accompagnati da antipasti veneziani, si é gustato il prodotto di rinomate aziende tri-veneto: Il Fresco Villa Sandi; Villa Jolanda Santero; Bianca Vigna; Astoria; Sgàjo Perlage; La Jara; Antonio Facchin; Mionetto; La Marca; Ca’ Di Rajo.   

Ha partecipato anche La Voce di New York, che alla fine dell’evento, ha conversato con il Presidente del Consorzio Prosecco D.O.C., Stefano Zanette.

Presidente Zanette, quale differenza rispetto al passato, adesso che siete diventati D.O.C.?

“L’evoluzione del prosecco arriva da quando è nata la nuova D.O.C. Da lì, andando a regolamentare tutta la produzione del territorio, andando a blindarlo, in modo serio numerando le bottiglie, sono arrivati i segnali che non si sarebbero lasciate più le cose al caso, ma tutto in un modo programmato, quasi scientifico. Quindi questa dinamica di crescita è stata, per noi, anche inaspettata, non credevamo di crescere così velocemente. Però tutti i provvedimenti che sono stati presi sono stati rivolti a far sì che questa crescita fosse comunque controllata”.

E cosa significa per i non addetti questa denominazione D.O.C. del prosecco? 

“Abbiamo, per capirci in modo semplice, fatto un blocco degli impianti, quindi la denominazione è bloccata dal punto di vista dell’aumento della superficie, per avere un certo rapporto con la domanda. Nel momento in cui la domanda è cresciuta abbiamo fatto entrare gradualmente dei nuovi vigneti all’albo della denominazione per far sì che ci sia crescita nel seguire la domanda”.

Quindi, il prosecco quando ha iniziato a crescere nel mercato, ha fatto gola e voi è come se aveste dato delle patenti di guida per chi lo volesse produrre ma nel modo adeguato.

“Sì, è tutto sotto regole molto rigide, anche se magari non può sembrare perché siamo in Italia, ma è così. E poi abbiamo adottato degli strumenti che è difficile da far capire, per regolare l’offerta e avere la giusta produzione”.

L’evento tenuto alla Scuola di Eataly

Il prosecco è conosciutissimo in Italia e nel nord est, e ha una sua collocazione anche nel consumo. Quante volte abbiamo sentito la frase “Andiamo a farci un prosecco prima di…”. Quindi, da essere un vino regionale, proprio di cultura locale, in Veneto soprattutto, ecco cosa è successo? Ci faccia un po’ di storia, quali sono state le prime aziende? Noi abbiamo visto qui a New York Mionetto, oltre dieci anni fa, fare molto marketing ad esempio. Ma qual è stata la molla che ha fatto sì che un vino regionale potesse diventare così globale come oggi?

“Bella domanda. Probabilmente il prosecco è stato creato, creato tra virgolette, nel tempo e ha cominciato ad avere questo successo a livello italiano e regionale, ma poi un po’ alla volta è stato fatto conoscere da alcuni brand che, proprio da ‘brand ambassador’, hanno fatto da ambasciatori del prosecco. Nel momento in cui si è fatto conoscere, è stato subito apprezzato, perché ha fatto cambiare un po’ l’approccio di chi beve e di come poteva venire consumato il prodotto. Prima il vino si beveva a tavola o nelle occasioni di una certa importanza. Il prosecco no, e proprio anche per il nostro modo di berlo nel nostro luogo di origine: lo si beve con disinvoltura e in tutte le occasioni, e in questo modo è stato apprezzato anche all’estero. Poi ci sono state delle aree di tendenza che hanno fatto crescere la percezione dello stile di vita italiano. Sicuramente il fatto che sia arrivato a New York e Londra ha fatto crescere la percezione nel consumatore che stava bevendo qualcosa che in quel momento stava per diventare di moda”.

Beh, i prodotti dell’Italia sono in questo momento cool nel mondo, del resto. Qui a New York spesso sono stati pubblicati degli articoli che cercavano di spiegare il successo del Prosecco: a un certo punto, ad esempio, si faceva la differenza tra lo champagne che è per un’occasione speciale, e il prosecco invece che si poteva bere ogni giorno, anche per il rapporto qualità/prezzo.

“Sì la qualità/prezzo è una carta che si è rivelata vincente, così come poi anche la tipologia del prodotto. Il prosecco è un vino semplice da bere, non si deve giustificarne la spesa, il prosecco si beve perché è un piacere berlo, deve essere un piacere quotidiano della vita e questo è stato fatto capire in giro per il mondo. Non solo, il prosecco ha portato le donne ad avvicinarsi al vino. Il prosecco ha proprio il suo approccio easy che ha scardinato quelli che erano i cardini definiti da tempo: ad esempio che si dovesse spiegare nei minimi dettagli ciò che si stava bevendo, giustificandone l’investimento. Il prosecco piuttosto è quello che hai in frigo e che apri alla prima occasione in cui hai piacere di berlo. Anche perché la gradazione alcoolica è molto bassa, non ha pesantezza, ma crea comunque allegria e non è impegnativo. Oltre che piacere quotidiano, è anche in un certo modo un lusso democratico, un po’ paragonabile a un bel paio di jeans che quando li usi e li sai abbinare bene, puoi anche uscire con giacca blu e una camicia bianca e fare la serata con stile”.

Adesso il problema potrebbe diventare le vertigini del successo: a volte è più difficile mantenerlo che raggiungerlo. Quali sono le vostre strategie? Questo evento forse è una di quelle, dopo che il prosecco si è imposto in mercato difficile come quello americano?

“Il punto di riferimento deve essere sempre la qualità, dobbiamo tenerlo a mente. Per aumentare la produzione di bottiglie lo facciamo aumentando la superficie, non è un aumento a discapito della qualità. Quindi c’è sempre la ricerca di una maggiore qualità: non dobbiamo soffermarci su quello che stiamo facendo adesso, e siamo comunque a un buon livello, ma c’è la presunzione di migliorare nel tempo. Ed è fondamentale in questo contesto, per fidelizzare il consumatore e avere un legame sempre più forte con lui, rinsaldare rapporto fiduciario tra noi e chi lo consuma. Non solo, altra cosa che vediamo è che nel mondo del Prosecco è importante evidenziare il valore del nome”.

Rispetto a spumanti e champagne, intende?

“Sì. Questo fa sì che nel mondo, bevendo e chiedendo un prosecco, si sappia che ti daranno una certa “bollicina”: questo è quello che dovremmo andare a far capire al consumatore. In modo che, quando si chiede prosecco, si capisca che si voglia quello originale, che viene da territorio ben definito”.

Un territorio che va dal Veneto al Friuli e trova in Treviso una centralità. Ma siamo sicuri che qualcuno non provi ad approfittarne in Italia, a rubarne l’eredità o il nome?

“No, se c’è scritto sopra Prosecco sulla bottiglia e con la fascetta di stato, quel Prosecco lì è prodotto nella zona d’origine, nelle nove province che escono da quel territorio, Veneto e Friuli. Ci sono delle aziende che hanno una deroga, sono delle aziende piemontesi e in un numero ben definito, che imbottigliano, spumatizzandolo, il prosecco. E hanno una deroga per continuare a farlo. Ma uva, fasi di vinificazione, analisi e controlli arrivano sempre dalle zone di denominazione. Quindi può anche essere spumatizzato in Piemonte, ad esempio, ma poi deve tornare a Treviso per verificare che la tracciabilità ci sia e per verificare le analisi sulle qualità organolettiche. Poi vengono rilasciate le idoneità con le targhette. Dopo, che ci siano tanti altri che operano fuori o dentro la nostra area di produzione proponendo dei vini alternativi che dicono ‘sono uguali al prosecco o simili’, questa è una lotta che dobbiamo fare”.

Ma pensiamo anche all’estero: possono scrivere Prosecco?

“Ci sono dei casi come il Brasile e l’Argentina che sono gli esempi più eclatanti, perché a dire loro hanno la possibilità di non riconoscere la nostra denominazione e dicono: ‘Noi lo stavamo producendo prima’. Ma ad esempio, anche su un fronte come l’Australia stiamo facendo lavoro comune con tavoli bilaterali tra Italia, UE e Australia, per arrivare a un accordo. Dove dobbiamo lavorare noi? Dove la denominazione ha un riconoscimento a livello europeo, vuol dire quindi che in Europa non possa entrare una bottiglia con scritto prosecco che non sia nostra”.

Ma ad esempio dall’Argentina può entrare negli USA?

“No, ci sono già accordi bilaterali con Italia e USA, per riconoscere la nostra denominazione. È questo il lavoro che bisogna andare a fare, attraverso accordi bilaterali o internazionali”.

Stanno funzionando?

“Si ma è un lavoro in cui non si è mai arrivati al punto conclusivo. Bisogna mantenere questo lavoro attivo e trovare sempre più questi accordi e quindi creare una limitazione a chi opera fuori dalle nostre norme, per entrare nei Paesi in cui siamo tutelati. La tutela è un lavoro importantissimo. Che poi fa anche piacere, perché fa capire quanto appeal abbiano i prodotti italiani, quindi noi dobbiamo essere anche in grado di difenderli. Per fare lavoro importante di tutela abbiamo bisogno di una rete che parta dai Ministeri e arrivi a far sì che questi accordi abbiano vera concretezza”.

Qualcuno dice che il consumatore stesso, dopo aver provato l’imitazione, cerca il prodotto originale direttamente e che non ci sia bisogno di forzare. Anzi, a volte paradossalmente l’esistenza del prodotto B rafforzi il prodotto originale A. È vero?

“A volte è successo e succede, anche nel design ad esempio. Ma dobbiamo fare in modo che la nostra produzione sia tutelata al massimo per contrastare chi opera illegalmente. Dopo di ché, il mondo è grande e c’è spazio per tutti. Credo che se tutti operano in modo corretto e se c’è concorrenza legale, è giusto che ci sia spazio per tutti. Ad esempio prima si citava lo champagne: noi non abbiamo mai lavorato per aggredirlo o per dire ‘noi siamo come lo champagne’. Noi ci siamo presentati col nostro prodotto, in modo io ritengo molto corretto, e poi è stato il consumatore che ha avuto un’opportunità in più e diversa di bere. Noi abbiamo quadruplicato la nostra produzione dal 2009 e sono più che raddoppiati i prezzi delle uve: quindi io contadino mi sono ritrovato ad avere un reddito molto superiore all’inizio e questa è stata una grande valorizzazione del nostro territorio. Questo quadruplicare le vendite però non ha portato a crollo del mercato dello champagne. E ci tengo a precisare una cosa: non abbiamo mai fatto tutto questo scimmiottando lo champagne. Per noi è un totem e per certi versi è una cosa inarrivabile perché è un vino completamente diverso dal nostro e ha una tradizione completamente diversa e merita il nostro rispetto. Noi siamo una cosa diversa, noi siamo il Prosecco, che chi vuole tra i giovani, le donne e gli uomini, può bere senza troppe preoccupazioni”.

Viene in mente anche il famoso Spritz, ad esempio, che ora si trova ovunque proprio tra i giovani nei bar di New York. Insomma ci sono tanti modi per tirare il prodotto sul mercato no?

“Sì anche questa dello spritz è una tradizione nostra e questa moda ora si è divulgata nel mondo. A noi ovviamente fa piacere”.

Dall’estero arrivano sull’Italia sempre notizie legate a problemi. Poi però quando si va a guardare al Made in Italy, e questo è uno degli esempi, invece l’Italia tira. In qualità di Presidente del Consorzio di un prodotto che va benissimo, come lei con il Prosecco, ci dica: tutti questi problemi della politica, al Made in Italy, importano poco o voi siete preoccupati comunque?

“No beh, avere una politica che abbia la credibilità e la stabilità serve, perché serve non nelle scelte spicciole, ma per poter rappresentare un’Italia più stabile dal punto di vista politico. Soprattutto nelle scelte a livello europeo, e nelle scelte dove si vanno a determinare le ricadute sui cittadini. Secondo me quindi la politica è importante, non possiamo trascurarla. Il fatto che funzionino bene i Ministeri è anche un fatto politico, non solo legato ai funzionari. Dopo di ché, è anche vero che noi abbiamo un modo italico che è quello di lamentarsi, anche quando le cose vanno bene. E la cosa che mi dispiace di più è che molto spesso, all’interno, quando qualcuno sta facendo le cose per farle andar bene, c’è chi cerca di demolire questo successo. E mi riferisco anche a delle aggressioni che abbiamo da parte della carta stampata e della televisione, perché molto spesso fa più audience il fallimento di qualcuno, piuttosto che il successo. Cioè mi sembra che in Italia molto più spesso ci sia questa voglia di vedere qualcuno cadere nella polvere, anziché del godere del successo di qualcuno, perché quest’ultimo genera invidia. E credo che questa sia la mentalità sbagliata. Dobbiamo uscire da questo modo di vedere e avere una visione veramente ottimistica. Dobbiamo essere dei veri leader del mondo, perché tutti ci riconoscono, non solo nell’agroalimentare, ma anche nella moda e in certi comparti dell’industria tecnologica, le nostre eccellenze”.

Viene spesso da chiedersi, visto quello che riusciamo a fare con una politica, diciamo così, traballante, cosa potremmo fare con un contesto più stabile…

“Vero, ma credo che noi italiani riusciamo sempre a trovare quel pizzico di genialità per venirne fuori”.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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