Ma esiste davvero la cucina italiana? Me lo sono chiesto in questi ultimi tempi partecipando ad alcuni eventi culinari. Forse la domanda giusta sarebbe: da cosa si riconosce la cucina italiana? Il tema non è così scontato come sembra. Sappiamo che essa è importante per gli italiani e che definisce un modo di essere. “La cucina di una società – come sosteneva Claude Levi Strauss – è il linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura”. Tuttavia a pochi anni dalla fine del XIX secolo la cucina italiana non esisteva. Non tutti sanno, infatti, che la cucina italiana è un vero e proprio artifizio, un’invenzione storica, perché la vera cucina italiana è stata, da sempre, locale, a carattere regionale. Oggi, invece, la decantano, l’apprezzano, la consumano ovunque nel mondo e si parla di stile culinario italiano come fosse qualcosa di unico e compatto.
Fu il celebre Pellegrino Artusi, in clima risorgimentale, a cucire le differenze tra una regione e l’altra, tra una località e l’altra. La pasta e la pizza divennero i simboli della cucina italiana: la pizza Margherita, in onore della regina d’Italia Margherita di Savoia, con i colori che richiamavano la bandiera nazionale: il pomodoro per il rosso, la mozzarella per il bianco e il basilico per il verde. Allo stesso modo la pasta con il pomodoro che di bianco ha, invece, gli spaghetti, i maccheroni o i fusilli. Successivamente fu Vittorio Agnetti a completare, tra gli altri, il tema con La cucina nazionale (1910). Il periodo era quello post-risorgimentale, cioè il periodo del fare metabolizzare agli italiani l’Italia come una struttura socio-culturale e modello di convivenza. Perché, come abbiamo più volte detto anche in questa rubrica, gli italiani c’erano già, con i loro costumi, comportamenti, attitudini, diversità. Quello che mancava, e forse manca ancora oggi, era l’Italia.
In quel paradigma, era normale che la cucina divenisse strumento di unione, come lo era la scuola, la leva, la cittadinanza, i diritti e i doveri.
Artusi, su questo, fu un maestro, grandissimo nella sua opera di costruzione nazionale. Ma la cucina italiana rivelava comunque e ovunque le sue origini locali e regionali. Molti piatti mantennero la loro origine nel nome: “alla veneta”, “alla piemontese”, “alla siciliana”, “alla romana”, “alla bolognese”, proprio per identificarne la provenienza. Perché l’Italia delle cento città e dei mille campanili è anche il paese delle cento cucine e delle mille ricette.
La dimensione era ed è tutt'oggi quella local-regionale. Quella nazionale italiana emergeva, invece, in maniera paradossale proprio nell’esistenza di una diversità compresente nella penisola. La diversità che si fa uniformità.
Nella diversità della cucina regionale italiana, tuttavia, un elemento è certamente comune: la semplicità, che deriva dalle origini prevalentemente povere e contadine di gran parte della popolazione. Perché l’Italia fu soprattutto un paese di contadini che utilizzavano, per i loro piatti, i frutti dei loro raccolti. Erano, invece, fondamentali i tempi di cottura, gli accostamenti, la tavola ben imbandita, ma soprattutto il piacere di stare insieme e comunicare. Diceva Ennio Flaiano, nelle parole di Cesare Marchi, che “il nostro, più che un popolo, è una collezione. Ma quando scocca l’ora del pranzo, seduti davanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della penisola si riconoscono italiani come quelli d’oltre manica, all’ora del te, si riconoscono inglesi. Neanche il servizio militare, neanche il suffragio universale (non parliamo del dovere fiscale) esercitano un simile potere unificante. L’unità d’Italia sognata dai padri del Risorgimento oggi si chiama pastasciutta”.
La cucina, come spazio della casa, diventa luogo della vita attiva, delle relazioni, dello scambio di notizie, delle chiacchiere e magari di qualche malalingua. La cucina, come modalità di preparazione dei cibi, si caratterizza regionalmente perché molti mangiano quanto produce il territorio circostante. I sistemi di conservazione e di trasporto del cibo sono complessi e costosi. Solo i Signori e gli aristocratici, come detto, se li potevano permettere.
Oggi, nell’epoca del cibo uguale ovunque, si affianca, paradossalmente, una tendenza opposta, quella di scoprire e riscoprire i cibi tipici o ricette antiche, espressione della cultura di un luogo. Alcune di queste se ne sono andate con gli emigrati partiti dall’Italia nei secoli scorsi, che le hanno conservate e riprodotte così com’erano nel luogo di arrivo. In Italia, magari, sono andate perse o entrate in disuso a causa della modernità. È anche per questo, per merito di questa diaspora italica, che la cucina italiana, mescolamento di cucine regionali, è diventato un fenomeno mondiale diffusosi e riprodotto in ogni parte del globo con un successo che poche altre cucine possono vantare. In altre parole, in tempi di glocalizzazione, l’elemento regionale ritorna fuori ed è esaltato dal desiderio di scoprire le tipicità del luogo.
La cucina è elemento culturale determinante dell’identità italiana ed italica, lo ricordava Giuseppe Prezzolini quando, senza troppa provocazione, diceva: “Certo è indiscutibile di quanto la cucina italiana sia importante per gli italiani. Mi domando io che, sono un professore poco professorale, che cos’è la gloria di Dante appresso quella degli spaghetti?” e anche Cavour, che, dopo aver letto il proclama di guerra contro l’Austria, invitò i suoi ospiti nel suo Palazzo per festeggiare la recente Unità con queste parole: “Oggi abbiamo fatto la storia e adesso andiamo a mangiare”.