La 17.ma edizione della Festa del cinema di Roma ha aperto nel segno giusto con il film Il colibrì di Francesca Archibugi (tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi premio Strega 2020 (330.000 copie vendute in Itali e tradotto in 25 lingue.
Il film è il racconto della vita di Marco Carrera, un uomo che cerca di accettare il suo destino e di resistere alle tempeste che agitano la sua calma barchetta e che al mare conosce la figlia dei vicini, Luisa Lattes, una giovane ragazza bellissima e più “sveglia” di lui: con lei vivrà un amore mai consumato e che per tutta la vita mai si spegnerà. La vita reale, coniugale, di Marco è a Roma, insieme a Marina e alla figlia Adele. A proteggerlo dagli urti più violenti che la vita gli mette davanti è Daniele Carradori, psicoanalista di Marina: gli insegnerà come accogliere i cambi di rotta più inaspettati che la vita ci riserba in ogni momento se restiamo allerti.
Grazie ad una sceneggiatura ben calibrata e che mantiene la struttura ad incastro del lavoro letterario (opera di Laura Paolucci (Caos calmo, L’amica geniale), Francesco Piccolo (Habemus Papam, L’amica geniale) e Francesca Archibugi), il film riesce ad avvincere lo spettatore con quel suo flusso di avvenimenti – su piani sfalsati come nel libro – nei quali ricordi, coincidenze, perdite, rimpianti e amori assoluti riescono a mantenere alto il ritmo.
Grazie anche – va detto a merito della regista stessa che lo ha scelto – ad un cast d’eccezione (tutti davvero bravi) che vede Pierfrancesco Favino (Marco Carrera), Kasia Smutniak (Marina Molitor), Bérénice Bejo (Luisa Lattes), Laura Morante (La mamma di Marco), Sergio Albelli (il papà di Marco), Nanni Moretti (lo psicoanalista Carradori), Alessandro Tedeschi (Giacomo, fratello di Marco), Benedetta Porcaroli (Adele) e Massimo Ceccherini (Duccio).

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Rispetto al romanzo, nella trasposizione di Francesca Archibugi c’è però un elemento in più che contribuisce a rendere più emotivamente ricco il film: un tormento, un’angoscia interiore di Marco che punta dritta al cuore dello spettatore e che consente una totale immersione nell’esistenza del protagonista, rendendo facile quindi anche il superamento della magari affiorante incredulità.
La seduzione, l’immedesimazione con la sorte del protagonista passano attraverso gli occhi, il modo di muoversi, le espressioni, il tono di voce di un superbo Pierfrancesco Savino nel ruolo di un uomo apparentemente senza qualità che vola restando fermo proprio come l’uccello che dà il titolo al film: una recitazione “mosaico delle emozioni” che fa meglio capire (più che nel libro) la personalità di Marco Carrera e aiuta a comprendere meglio il valore “quasi eroico” di un uomo che non fa della sessualità un’ossessione, che piange ma non si scoraggia perché è attaccato alla vita, a vivere con lui quel difficile passaggio in cui la resistenza passiva diventa coraggio, l’apparente remissività in ostinata difesa del proprio bisogno di dare e ricevere tenerezza, virtù che possiedono gli individui cresciuti in un universo femminile e che dalle donne hanno imparato la capacità di intuire i desideri degli altri.
Una storia che trasmette un messaggio di resilienza, di bisogno di adattamento a condizioni negative e traumatiche della vita, ai mutamenti delle situazioni contingenti e dello spirito – perché il colibrì è un uccello che impiega settanta battiti di ali al secondo per rimanere fermo – per costruire così un essere umano la cui forza sta proprio nel percorso travagliato e non in un facile e scontato finale. Nel romanzo di Sandro Veronesi nell’ultima parte c’è l’arrivo di un “uomo nuovo”, nel senso ontologico del termine, nel film si tratta di una bambina, il cui nome è Miraijin.

La storia procede con la forza dei ricordi che permettono di saltare da un periodo ad un altro, da un’epoca ad un’altra, in un tempo “liquido” che va dai primi anni ’70 fino ad un prossimo futuro. E’ un film che parla delle nostre illusioni e di ciò che paghiamo per continuare a crederci, è la storia della forza ancestrale della vita, della strenua lotta che facciamo tutti, ricorrendo anche alle potenti armi dell’illusione della felicità e dell’allegria per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile.
Come il colibrì, Marco, nonostante sembri fragile avendo un passato nel quale albergano rimpianti e perdite, dimostra invece di essere forte (l’uccello resiste anche a basse temperature, come in uno stato di ibernazione e possiede ottime capacità di volo, perché è in grado di stare sospeso mentre succhia il nettare dei fiori,ndr). Presso i Maya il colibrì rappresentava la quinta era dell’uomo, cioè l’epoca che stiamo vivendo, nella quale si dovrebbe raggiungere un alto grado nell’evoluzione umana.
Altro aspetto avvincente, per qualità e commozione, lo riserba la chiusura del film, con una canzone inedita di Sergio Endrigo e Riccardo Sinigallia, interpretata da Marco Mengoni e a lui affidata dalla figlia del bravo e mai indimenticato cantante, Claudia Endrigo.
Il colibrì è un film che probabilmente risulterà un po’ “ostico” ai più giovani ma che, con i suoi tanti momenti di riflessione, personale e sociale che suscita, inviterà probabilmente molti a rivederlo come fu, per esempio, con Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman.
Francesca Archibugi, sceneggiatrice e regista, è una presenza costante del cinema italiano sin dal 1988, anno dell’esordio con Mignon è partita (David di Donatello per il migliore debutto e la migliore sceneggiatura). Negli anni successivi ha firmato lavori importanti come Il grande cocomero, L’albero delle pere, Lezioni di volo, Il nome del figlio e Vivere.