Come tutti i grandi, da Verdi a Mozart, mai considerati dalle istituzioni formative con la “i” maiuscola, anche Carla Fracci rischiava di non essere ammessa alla Scuola di Ballo della Scala. Poi, come dice la leggenda, fu accolta in extremis: ultima ruota del carro, non in virtù di un piccolo corpo dotato, ma per un sussurato “l’ha gaà un bel faccin”.
Quella traballante ammissione, ancora in dialetto milanese, è ormai passata alla storia, come tutta la straordinaria vita di quest’artista che ci ha lasciato in punta di piedi. Senza dire a nessuno della sua malattia, un tumore, Carla che avrebbe compiuto 85 anni il 20 agosto, tenne in gennaio un paio di masterclass, lanciate in streaming su Giselle per il Corpo di Ballo della Scala, inviata con acume dal nuovo direttore scaligero, Manuel Legris. Di certo, per quanto già visibilmente esausta, non si è risparmiata nel mostrare e rimostrare soprattutto alle danzatrici i segreti di un ruolo di cui è stata, e ancora rimane, insuperabile paradigma.
Come abbia fatto poi a diventare una sorta di “nuova Maria Taglioni”, cioè regina del balletto romantico riconosciuta nel mondo, questo appartiene sia alla sua infaticabile e insaziabile passione per l’arte che aveva scelto, sia allo studio accanito, tecnico e teorico, del periodo romantico cui la sottopose il colto marito Beppe Menegatti, con e per il quale lei ha interpretato un’infinita quantità di balletti.
Forse, senza Beppe, quel “bel faccin” diventato un ventenne corpo flessuoso – pura luce e carisma dal busto in su, e un po’ più fragile nelle gambe, nei piedi privi di un invidiabile collo arcuato – non avebbe strategicamente percorso anzittutto la via di una vera rinascita del Romanticismo sulle punte. Nessuna Giselle, tra le tante che abbiamo ammirato e ammiriamo ancora oggi, sono mai riuscite a farci piangere come lei, nella scena della pazzia della contadinella tradita dal suo amore, quando corre, folle e disperata, nelle braccia della madre prima di soccombere a terra.
Nessuna Giselle, nel secondo atto dello stesso balletto, ha saputo trasformare il suo corpo in un corpo fantasmatico, come lo sognavano i Romantici del 1841, sollevando il tutù nei momenti chiave, avvolgendosi nel suo thulle per disegnare un’icona impalpabile di estrema e spirituale leggiadria.
Grande Carla, divenuta prima ballerina della Scala nel 1958, ma di lì a poco fuggita a New York per diventare, accanto ad Eric Bruhn, un’icona anche ne La Sylphide, ruolo più malizioso, ma non meno attinenete alle sue corde poetiche neo ottocentesche. Sappiamo quanto gli americani l’abbiano amata e incensata, in specie all’American Ballet Theatre.
Ma poi, la figlia del tranviere e di un’operaia che amavano ballare nelle feste popolari e nelle balere, deve aver sentito il richiamo di casa. La nascita di un nuovo progetto, puntigliosamente creato con il marito, fecero di lei la ballerina più famosa anche in Italia. Costituita una compagnia cangiante, la coppia portò il repertorio ballettistico, in ogni recondito angolo del Bel Paese. Camminare con lei per strada, come mi è capitato molte volte, signficava fermarsi ogni volta per un autografo e un sorriso.
E per molti, tutti direi, Carla è stata il sinonimo stesso di balletto. Non che lavorando non si sia goduta la vita, anzi. Amava mangiare gran piatti di pastasciutta, amava le vacanze, amava i tanti amici artisti: poeti come Eugenio Montale, pittori come Guttuso, scultori come Marini, drammaturghi ed attori, come Eduardo de Filippo, che quando danzò la sua Filumena Marturano, le donò la poltrona di Titina, l’adorata sorella. Tutti erano affascinati dalla sua carismatica personalità, tutti pronti a darle un po’ della loro arte, o dei loro ricordi, forse per avere in cambio anche la carezza della sua voce di velluto.
Carla è stata attrice nel Verdi televisivo e magnifica Giuseppina Strepponi, è stata Tamara Karsavina nel film Nijinskij di Herbert Ross, ha interpretato il Ballerine di Peter Hustinov, sempre con quella speciale naturalezza che derivava dal suo carattere. Se è vero che la danza non mente neppure sulla personalità più nasconta, ebbene a Carla mancava l’affettazione, quell’impettita quanto inutile altezzosità costruita, che ancora è di molte pur brave ballerine. Certo, sapeva benissimo chi era e cosa rappresentava nel mondo, visto che veniva chiamata ovunque, a Cuba come in Giappone, a Parigi come al Bol’šoj di Mosca, ma non amava sentirsi diva o rinuciare alla sua schiettezza di donna capace di ridere a crepapelle, di infuriarsi, di celare i propri pensieri sulla vita, sulla politica, sui mali del mondo.
Avrebbe voluto dirigire il Corpo di Ballo della Scala, invece lo fece al Teatro di San Carlo di Napoli per un anno e per dieci, dal 2000 al 2010, al Teatro dell’Opera di Roma, con gran successo. Aveva un sogno: creare una Compagnia nazionale di balletto, ma non lo realizzò. Si consolò sempre, e non solo per questa occasione, con gli affetti: dal figlio Francesco ebbe due adorati nipotini.
Pur nello scorrere veloce dei suoi spettacoli, anche dedicati a Isadora Duncan, a Zelda Fitzgerald, a Ida Rubinstein, ad Artemisia Gentileschi – l’ultimo ruolo danzato sei anni fa – Tat’jana in un suo indimenticabile Onegin scaligero, ma anche la pluriomicida Lizzie Borden in Fall River Legend di Agnes de Mille, e più volte nella Civiltà (e poi la Luce) del secondo Excelsior di Filippo Crivelli, Ugo Dell’Ara, Giulio Coltellacci e Fabrizio Carpi, Carla ha dato al mondo del balletto una nutriente lezione.
Non si danza per mostrare solo virtuosismo e tecnica, anche se lei ha lavorato forsennatamente sul suo corpo, ma quel quid che nasce da passi e movimenti sentiti, interiorizzati, offerti al pubblico per creare empatia e sentimento.
Inutile dire quale monumento lei sia ora diventata dopo questa morte prevista, ma improvvisa, – una camera ardente è stata aperta nel foyer del Teatro alla Scala oggi dalle ore 12 alle 18 ed è impossibile entrarvi tante sono le persone accorse a renderle omaggio. Ma è importante che di lei rimanga soprattutto l’esempio. Servirà al mondo della danza.Tutta.