Colette, lo short documentary nominato agli Oscar, racconta la storia di Colette Marin-Catherine. Entrata da giovane della Resistenza francese in lotta contro i nazisti, si rifiuta di mettere piede in Germania dal 1945. Questo cambia quando una studentessa di storia di nome Lucie entra nella sua vita e la incoraggia a visitare il campo di concentramento (Mittelbau-Dora vicino a Nordhausen) dove i nazisti hanno ucciso suo fratello Jean-Pierre. Il film segue Colette mentre viaggia con Lucie verso ciò che rimane del campo di lavori forzati. Il processo di produzione del film riguarda la fiducia, il coraggio e l’importanza della memoria. Il regista Anthony Giacchino e la produttrice Alice Doyard rispondono alle nostre domande prima della notte degli Oscar.
Innanzitutto, grazie per essere qui e congratulazioni per la candidatura agli Oscar come Best Documentary Short. Quello che cerchiamo di fare con La Voce di New York è dare appunto voce alle persone che producono film e contenuti creativi in questi tempi così difficili per l’industria dell’intrattenimento e per il cinema. Per cominciare, come siete entrati in contatto con la storia di Colette?
Alice Doyard: “Quando abbiamo incontrato Colette per la prima volta è stato per una semplice intervista. Anthony ed io siamo rimasti colpiti dalla sua personalità. Anthony ama documentare la storia, è la sua passione. E Colette ci ha portato dei ricordi molto vividi della guerra. Ha parlato con Anthony come se fossimo tornati nel 1943. Personalmente sono interessata alle donne della Resistenza per via della mia famiglia, conosco un paio di donne ex membri e ho pensato – Questa persona è molto particolare, ha una voce come nessun’altra – . Non è stata solo un combattente durante la guerra, ma ha lottato durante tutta la sua vita. Anthony ed io abbiamo pensato che questa donna meritasse di più di un’intervista. Alla fine è diventato un intero film sulla sua esperienza”.
Anthony Giacchino: “E’ vero che non sapevamo chi fosse Colette, quello che mi piace di questo in senso generale è che ti fa pensare alle storie che non conosciamo delle persone che sono accanto a noi, sedute su un autobus o in metro, etc… Siamo stati fortunati a conoscerla, ovviamente. Penso che ognuno abbia qualcosa da dire”.
Considerando la sua personalità così reale e autentica, come è stato dirigerla sul set?
Anthony Giacchino: “Non so nemmeno se posso davvero dire di averla diretta. È stato più che altro catturarla nei suoi momenti. C’è una scena molto specifica in cui lei ci dice di fermarci e sederci. Eravamo lì per catturare un viaggio, amo la parola che Colette e Lucie hanno usato per questo, ovvero pellegrinaggio. Ci sono stati mesi e mesi di preparazione, non solo perché venivamo dagli Stati Uniti. Colette si è fidata di noi per raccontare la storia, Alice ha avuto una lunghissima discussione con lei sul significato che avrebbe avuto fare visita al campo vicino Nordhausen. L’abbiamo suggerito noi, e quando alla fine Colette ha sentito che era la cosa giusta da fare, era pronta a partire. C’è sempre stato tantissimo rispetto nei suoi confronti e in generale tra noi membri della troupe del progetto”.
Come avete gestito il processo di produzione?
Anthony Giacchino: “Il film ha avuto un’origine interessante. Colette è stato co-prodotto da Respawn Entertainment di Electronic Arts e Oculus Studios di Facebook e distribuito dal The Guardian. Electronic Arts e Oculus Studios stavano creando un gioco sulla Seconda Guerra Mondiale (Medal of Honor). Sono stato contattato e mi è stato detto che avevano bisogno di contenuti educativi per accompagnare il gioco. Ho incontrato Alice quando ero in Francia alla ricerca di storie, è stato allora che abbiamo sentito parlare di Colette. Alla fine dell’estate del 2019 abbiamo avuto un confronto con Electronic Arts per convincerli che la storia di Colette meritava di avere una vita al di fuori del gioco. Dopo aver definito la distribuzione abbiamo partecipato ad alcuni festival vincendo diversi premi, fino a qualificarci agli Oscar”.
E’ stato un progetto difficile da portare avanti?
Alice Doyard: “Non è stato facile, ci era molto chiaro che volevamo fare qualcosa che avesse un senso per Colette. Lei ci ha detto “non voglio andare al campo di Dora, mio fratello è morto lì ma non ho mai voluto andarci, non mi piace il dark tourism”. Quando ha iniziato a realizzare cosa voleva abbiamo trovato Lucie. Anthony ed io volevamo costruire un ponte per la nuova generazione. Quando vuoi vedere delle connessioni in camera hai bisogno di due persone e abbiamo avuto la fortuna di incontrare Lucie, una ragazza di diciassette anni, la stessa età del fratello di Colette quando è stato arrestato. E’ una studentessa e aspirante storica, curiosa di recarsi al campo di concentramento per la prima volta a supporto delle sue ricerche. Come producer posso dire che l’idea era trovare una storia per riprodurre ciò che abbiamo provato durante il nostro primo incontro con Colette”.
Anthony Giacchino: “Non sapevamo che avrebbe funzionato così bene tra di loro e non avevamo idea che sarebbero diventate così intime come invece hanno fatto di fronte alla camera. Quel viaggio ha accelerato un processo di amicizia”.
Mi ha davvero commosso la loro amicizia e il loro legame, specialmente quando Colette dà a Lucie l’anello di suo fratello. È stato spontaneo?
Anthony Giacchino: “Sì. Quel gesto rappresenta per me l’idea che vediamo nel film, Colette vuole dimenticare il passato per sopravvivere e andare avanti. Lucie vuole ricordare il passato per andare avanti e sopravvivere. Alla fine del viaggio Colette capisce il punto di vista di Lucie sul ricordo. Con l’anello questo diventa concreto, sta tramandando la storia. Colette le dice – lo terrai per i prossimi cento anni, e ti ricorderai di questo – . È molto significativo”.
Alice Doyard: “C’è un simbolismo poetico nel dare questo anello a Lucie. Colette ha avuto una vita difficile, anche dopo la guerra. Tutta la sua vita è fatta di combattimenti. Trova conforto nella poesia, nei simboli. Regalando questo anello ha fatto qualcosa che ha veramente senso per lei, che lo rende reale”.
La preoccupazione generale è capire come la nuova generazione affronterà il passato, visto che siamo tutti occupati a cercare di dimenticare le cose brutte causate della pandemia, per esempio. Pensate che il genere documentario, in particolare il vostro lavoro, possa contribuire a infondere un senso concreto di responsabilità storica e necessità della memoria?
Anthony Giacchino: “Direi che questa è la nostra speranza. Lo abbiamo accennato quando ho menzionato la tensione tra il punto di vista di Colette sul ricordare e quello di Lucie. Se dovessi scegliere, seguirei Lucie. Ha questa visione ottimistica del “mai più”. Non credo si sia resa conto che questo sarebbe stato così emozionante per lei. È meglio se riusciamo a trovare la forza di affrontare i momenti bui del passato del nostro paese. Negli Stati Uniti abbiamo seriamente bisogno di farlo. Spero che le persone che guardano questo film pensino – Va bene affrontare il passato e trovare il modo per essere migliori – “.
Alice Doyard: “Avevamo anche in mente, mentre giravamo questo film, che fosse possibile una sorta di guarigione rispetto al passato. Questo è effettivamente quello che fa Lucie, guardare ciò che è stato negli occhi e ammettere le ferite che abbiamo dentro. Questa storia vede due donne di età molto diverse unire le forze. C’è una sorta di solidarietà che rimanda alla scelta di Colette di unirsi alla Resistenza francese quando era giovane, prendendo parte all’azione comune e collettiva. Nel mondo contemporaneo stiamo affrontando una minaccia globale, uguale per tutti noi, e cosa faremo? Siamo disposti ad unire le forze?”.
Un pensiero sulla candidatura agli Oscar
Anthony Giacchino: “È un grande onore. Penso al momento in cui Jean-Pierre è stato arrestato dalla Gestapo in un’aula perché aveva messo dei fiori sulla tomba di un combattente della Resistenza, e siamo legati a quel momento. La celebrazione ha una sfumatura di tristezza per quell’atto che stiamo ricordando. Spero solo che non ce ne dimenticheremo durante la cerimonia”.
Alice Doyard: “Possiamo vivere di quello che sappiamo, e quello che abbiamo ora è questa incredibile amicizia tra due donne. Una nostra amica ci ha detto che abbiamo salvato Colette dalla cicatrice che aveva di Jean-Pierre. Grazie al documentario è orgogliosa e parla di questa esperienza a tutti”.
Sia Alice Doyard che Anthony Giacchino hanno radici italiane nella loro famiglia e sono felici di condividerle con La Voce di New York, sottolineando l’importanza del passato e dei ponti culturali.
Anthony Giacchino: “La famiglia di mio padre viene da Caccamo, in Sicilia, quella di mia madre dall’Abruzzo, e si sono incontrati a Philadelphia”.
Alice Doyard: “Una parte della mia famiglia era di Anversa e aveva delle barche, faceva scambi con Venezia, da lì provengono i miei antenati”.
Auguriamo a “Colette” di vincere l’Oscar e siamo soddisfatti di questo confronto che dà valore alla caccia alle storie e all’attuale urgenza del genere documentario. Guarda qui Colette
Biografie
Anthony Giacchino, regista, è un regista vincitore di un Emmy Award che vive a New York. Il suo ultimo documentario, “The Giant’s Dream” (Warner Bros ), racconta la storia dietro il primo film del regista premio Oscar Brad Bird, “Il gigante di ferro”. Il suo primo documentario lungometraggio, “The Camden 28”, è andato in onda sulla serie PBS POV, ed è stato nominato per un premio Writers Guild of America per l’eccezionale risultato nella scrittura per lo schermo. Giacchino è un ex borsista Fulbright alla Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, in Germania.
Alice Doyard, produttrice, è una premiata produttrice e regista francese, con crediti che includono “The confined: A Story of Hidden Children” (BBC), “The Remarkable Resistance of Lilo” (BBC), “Resistance Women: The Fight Against Hitler in Berlin” (BBC), “Big Screen Splendors: Bridget Jones In London” (Arte). Ampiamente riconosciuta per la sua abilità nel trovare potenti storie umane in luoghi diversi come i campi di battaglia delle guerre mondiali o le foreste del Congo, il suo lavoro per BBC News sulla caduta del dittatore Robert Mugabe è stato premiato con la Ninfa d’Oro al Monte Carlo Television Festival nel 2018. Nel 2021, Alice Doyard è stata nominata all’Oscar®️ per il documentario breve Colette.