In questo periodo di lockdown dovuto al Covid-19 è innegabile che la creatività in termini di scrittura, pittura e musica ha avuto un suo trionfo e ha visto gli artisti poter dedicare più tempo e idee alla loro arte. È innegabile che ci siamo comunque dovuti confrontare con qualcosa di sconosciuto, di inedito, che ha spinto esseri e istituzioni a reinventarsi.
La crisi del cinema di sala è stata sicuramente accelerata dal lockdown, ma il Torino Film Festival, sempre all’avanguardia nell’anticipare tendenze e visioni – come la scelta originaria di puntare sui giovani e sui progressi delle tecnologie – ha indubbiamente indicato una strada nuova mettendo tutta la programmazione on-line, primo tra i vari festival. Una scelta che si sta rivelando azzeccata perché, a pensarci bene, proprio grazie allo streaming molti film hanno potuto superare il confine territoriale del Piemonte ed essere visti da tante persone, non solo in Italia ma anche all’estero.
Una scelta, e un risultato, che fanno indubbiamente intravedere per il futuro delle arti un probabile periodo di novità creativa collettiva e individuale. Anche per la distribuzione di film e altre opere “non mainstream”.
Già nello scorso ottobre, con la nascita a Palermo di YouMovie – “la Netflix del cinema indipendente italiano” – le realtà cinematografiche autonome hanno mostrato una grande, per alcuni inattesa, solidarietà scegliendo di aprirsi al dialogo con i fruitori attraverso un formato digitale per tanto, troppo, tempo ritenuto irrealizzabile. E così ora molte realtà artistiche indipendenti avranno sempre più la possibilità di essere distribuite e poi viste anche da chi, prima, di esse non ne aveva magari mai sentito parlare. Uno sberleffo alle tante piattaforme streaming gestite da multinazionali interessate solo al cospicuo guadagno e che hanno quasi sempre considerato “non commerciali” le produzioni indipendenti.

Ecco allora che in questo contesto la scelta del Torino Film Festival di non puntare sul cinema delle grandi case di produzione assume una valenza maggiore e meno “condizionamenti” che si traduce in una più ampia e libera ricerca di piccoli “gioielli”, meglio ancora se italiani come, per esempio, Vera de Verdad-Io sono Vera di Beniamino Catena e Il buco in testa di Antonio Capuano. Entrambi sono stati presentati Fuori concorso.
Dopo aver diretto fiction televisive di successo, come Squadra Antimafia (cinque stagioni) e Rosy Abate (due stagioni), Beniamino Catena debutta sul grande schermo con un film dalle mille sfaccettature che lo rendono di difficile collocamento in un unico “genere”. Benvenuto allora a qualcosa di nuovo nel panorama del nostro cinema indipendente, troppo spesso unitematico e legato per lo più alla commedia o all’horror. È un film che scombussola molte “certezze”, come a dirci che continuare a considerare passato, presente e futuro come realtà distinte è solo un’illusione consuetudinaria.
Vera, una bambina di nove anni appassionata di astronomia, scompare senza lasciare traccia. Cinque anni dopo ritorna ma, invece di essere adolescente, è una donna di circa trenta anni. Non ricorda niente. I medici ritengono che sia vittima di una strana sindrome da invecchiamento precoce. La famiglia è sconvolta, ma l’esame del DNA conferma che quella donna è davvero la loro bambina. Quando le immagini riaffiorano alla memoria, Vera capisce di aver vissuto la vita di un uomo che in Cile si è risvegliato dal coma nello stesso istante in cui lei è svanita nel nulla.

“Il film esplora il rapporto tra vita e morte, paura e accettazione, solitudine e unione con il tutto – ha detto il regista -. Vera non solo è un personaggio ma anche il paradosso che porta gli altri protagonisti, in primis Elias e Claudio, a confrontarsi con la paura sia di vivere che di morire”.
In questo film “ibrido” – un po’ horror, un po’ melodramma, un po’ fantascienza – sono i sentimenti, le emozioni dei personaggi difronte a eventi insoliti e sbalorditivi ad essere il nocciolo, il filo conduttore dei vari momenti per arrivare alla riflessione che se si vuole risolvere dei conflitti bisogna innanzitutto essere sé stessi e che la solitudine – sintetizza il video finale del padre per la figlia – può essere superata se capiamo che siamo tutti connessi gli uni agli altri, prima, durante e dopo.
Dove c’è fuoco? È la domanda più ripetuta all’interno di Vera de Verdad-Io sono Vera, ma forse ci dovremmo veramente chiedere “C’è il fuoco?”. Per Catena sì e tutto si avvera quando credi e desideri profondamente una cosa.

Il film, coproduzione Italia-Cile e scritto da Paola Mammini (Tutta colpa di Freud, Perfetti sconosciuti) e Nicoletta Polledro, con la supervisione di Alejandro de la Fuente, offre sequenze mozzafiato con la natura protagonista: dal mare della Liguria, con la caletta di Punta Crena, alla luce del deserto cileno con l’emozionante paesaggio della montagna sopra San Pedro de Atacama, dove – a 5.000 metri c’è ALMA, uno dei più potenti telescopi al mondo per studiare la luce proveniente da alcuni dei più freddi oggetti dell’Universo.
Buone le interpretazioni di Caterina Bussa, il cileno Marcelo Alonso (interprete prediletto e molto apprezzato del regista Pablo Larrain), Paolo Pietrobon, Anita Caprioli e Marta Gastini. Degna di nota anche la colonna sonora originale firmata dai Marlene Kuntz, vecchia conoscenza di Beniamino Catena che ha diretto alcuni loro video musicali.
Tutto perfetto? No. Se una critica può essere fatta non riguarda certamente la riflessione personale e sociale a cui ci invita, ma la parte finale: nel tentativo di “chiudere il cerchio”, il regista mette insieme troppe cose che rendono difficile un ritorno al reale. Resta comunque una ventata fresca nel nostro cinema!
E veniamo a Il buco in testa scritto e diretto da Antonio Capuano (Vito e gli altri – Miglior film della ‘Settimana della critica’ e ‘Nastro d’argento’ per il Migliore regista esordiente alla Mostra del Cinema di Venezia del 1991; Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, Luna Rossa, La guerra di Mario– ‘Premio dei critici’ al David di Donatello del 2006).
Il buco in testa è un film del 2018, ma presentato in anteprima mondiale in questa edizione del Torino Film Festival.

Maria Serra (la brava Teresa Saponangelo) vive vicino al mare, a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Ha un lavoro precario da insegnante, nessun amore. Una madre praticamente muta. Vive in un quartiere schiaffeggiato dal vento e pesantemente condizionato dalla camorra. Quarant’anni prima, un militante dell’estrema sinistra ha ammazzato il suo giovane padre, vicebrigadiere di polizia, nel corso di una manifestazione politica. Maria, nata due mesi dopo quel terribile episodio, un giorno apprende che l’omicida del padre ha un nome, un volto, un lavoro. Ha scontato la sua pena e vive a Milano. “Adesso so chi odiare”, pensa Maria. Si tinge i capelli di rosso e prende un treno per andare a incontrarlo, con in tasca la pistola del padre. Maria non sa bene cosa farà quando se lo troverà difronte.
Il buco in testa, importante per la storia del nostro Paese ancora segnato per molti versi dai duri, brutti anni di piombo della lotta armata di fine anni ’70, fa libero riferimento ad un fatto di cronaca avvenuto a Milano il 14 maggio 1977, nella centrale Via De Amicis, quando un giovane estremista di sinistra di Autonomia Operaia, Giuseppe Memeo, uccise con un colpo di pistola alla testa il 25enne vicebrigadiere Antonio Custra, lasciando vedova la moglie incinta.

“Ho sentito la storia di questa donna alla radio – ha detto dice Capuano – e l’ho voluta conoscere. Raccontava la morte del padre con semplicità, in maniera serena e pacata. I media si chiedevano allora giustamente perché mai questa ragazza, dopo 30 anni da quella vicenda, aveva voluto incontrare l’assassino del padre. ‘Lo volevo guardare negli occhi – diceva. Forse sarei riuscita a liberarmi dall’odio che mi blocca da quando sono nata. Ho un buco in testa, dal quale ancora non riesco a venir fuori’. La vita di quella ragazza ‘nata morta’ come lei diceva di sé, bisognava farla conoscere, rivivere”.
Capuano torna con questo lavoro al suo cinema “realistico” di Vito e gli altri e Pianese Nunzio, 14 anni a maggio attraverso inquadrature dai colori forti, un naturalismo, desolante, che vive e palpita in ogni inquadratura (radio e tv sempre accese nel pericoloso quartiere in cui la ragazza vive) e una libertà espressiva nel personaggio di Maria (parla direttamente al pubblico) che dà al film un tocco tra il servizio fotografico-giornalistico e la venuta a galla di un subacqueo.
Manca un certo spessore nei personaggi di contorno – invece di dare forza alla storia centrale sembrano per lo più delle digressioni, delle parentesi – ma questo scalfisce solo un po’ il valore della sceneggiatura e della regia.

Ottima interpretazione anche di Tommaso Ragno (Guido Mandelli nel film, alias Antonio Custra nella storia reale): è un uomo divorato dal rimorso e sconfitto dalla storia.
Il buco in testa cerca di presentare, con i personaggi di Mandelli e Maria, non solo chi decise per la lotta armata negli anni di piombo ma anche il lascito di quegli eventi: non si sono uccisi solo i padri, ma anche i figli, le figlie, orfani anche senza esserlo anagraficamente.
Aiutano a meglio comprendere il valore del film anche le parole di Capuano sul terrorismo. “È una cosa che ho vissuto pienamente, simpatizzavo per i gruppi di estrema sinistra, ma poi quando hanno cominciato ad ammazzare le persone non ci sono stato più: non si cambia il mondo uccidendo. Certo se penso al mondo di oggi mi vergogno, sento la sconfitta. Che mondo mai abbiamo lasciato ai giovani che alla fine non possono quasi far altro che perdersi nelle spirali tra droghe e altro?”.