Da diversi anni il mondo delle case di produzione cinematografica e i Festival del cinema riserbano sempre più attenzione al documentario, non più visto – per fortuna – come “sottospecie” del film. Le case di produzione hanno finalmente capito che proprio da un buon documentarista può nascere un bravo regista e quindi è meglio “averlo in casa” per progetti futuri; i Festival hanno compreso invece che “il reale”, la conoscenza di ciò che veramente accade e ci circonda è un’esigenza sempre maggiore della società mondiale, e quindi anche dei cinefili.
D’altronde, come la storia della cinematografia anche testimonia, molti registi famosi hanno nel loro curriculum l’attenzione – anche più volte – a questa particolare forma espressiva. Tanti gli esempi (ne cito solo alcuni, senza voler fare alcun torto agli altri): a partire da L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov (considerato il miglior documentario di sempre dall’autorevole British Film Institute) a Nanuk l’eschimese (1922) di Robert Flaherty; da Terra senza pane (1933) di Luis Buñuel a L’Aventure de Guy (1936) di Alain Resnais; da Grizzly Man (2005) di Werner Herzog a Così è andata-Gente di montagna (1987) di Ermanno Olmi; da Verità e menzogne (1975) di Orson Welles a Close-up di Abbas Kiarostami.
Nel corso degli anni si è passati dal documentario sulla realtà ripresa come si presenta ai nostri occhi, su un personaggio o un evento storico, a forme “ibride”, tra documentario e film di finzione, i cosiddetti docu-fiction, che includono sia immagini reali sia sceneggiate da attori, o i mockumentary (“scherzo-documentario”, “falso-documentario, vedi Zelig (1983) di Woody Allen o This Spinal Tap (1984) di Rob Reiner) girati con tecniche di ripresa e ritmo propri del documentario, ma che raccontano invece sceneggiature di pura finzione.

Ha fatto quindi molto bene il 38.mo TFF-Festival del Cinema di Torino a dare giusto risalto a questa forma comunicativa proponendo all’attenzione documentari di autentica bellezza che meriterebbero di essere visti anche in sala quando il Covid-19 ce lo permetterà.
Dopo 1974-1979-Le nostre ferite di Monica Repetto, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi, meritano oggi attenzione My America di Barbara Cupisti e Rione Sanità-La certezza dei sogni di Massimo Ferrari.
Il “sogno americano” esiste ancora? È questa la domanda che ha guidato la Cupisti, ex attrice di Gabriele Salvatores, Tinto Brass, Norman Jewison, Carlo Verdone – e tanti altri registi – e ora documentarista internazionalmente affermata e premiata per Madri (2007), vincitore del Premio David di Donatello, e per Fratelli e sorelle: storie di carcere (2012), girato in deversi penitenziari italiani e vincitore del Premio Flaiano e del Premio Ilaria Alpi (il più prestigioso riconoscimento giornalistico italiano).
Dopo Womanity (2016-17), documentario ambientato tra India, Egitto e Stati Uniti e in cui racconta il lato privato, l’eroismo e la forza quotidiana di donne anonime ma ricche di un coraggio fuori dalla norma, la regista toscana, il cui punto di forza è sempre stata la schiettezza, torna a parlarci dell’America “dietro le quinte”, quella di cui spesso si parla poco sui media di tutto il mondo perché “un giornale non deve avere troppe notizie tristi”. La Cupisti lo fa attraverso persone comuni che hanno messo il loro impegno civile a disposizione dei più bisognosi e per contrastare la violenza quotidiana legata alla libera circolazione delle armi da fuoco (voluta dalla potente associazione lobbystica National Rifle Association).

I tre capitoli di My America, documentario asciutto, duro, non retorico, ma anche pieno di speranza, riguardano la purtroppo non poco frequente violenza armata nelle scuole superiori partendo dalla strage di San Valentino a Parkland, in Florida, che nel 2018 che fece 17 morti. A Trump che parlò di necessità irrimandabile di armare e addestrare i professori – legalizzando così di fatto il far west nelle scuole – molti giovani hanno risposto dando vita a varie associazioni che si propongono di combattere una guerra pacifica contro la violenza e la propagazione incontrollata delle armi, come i ragazzi di Chicago che hanno creato l’associazione Goodkids MadCity, che è impegnata anche nei ghetti della città del vento. My America affronta negli altri due spezzoni tematiche legate alla povertà. Come quella dei tantissimi senzatetto nelle grandi metropoli, in un Paese dove sempre più persone si vengono a trovare sotto il livello di povertà: sono così tanti che talvolta, come per esempio a Los Angeles, hanno creato delle vere e proprie “città nelle città”, vedi la Skid Row, a poca distanza dal Financial District: in aiuto c’è solo l’associazione Share a Meal che distribuisce cibo e beni di prima necessità; c’è poi l’amara riflessione sui migranti messicani, portandoci al confine tra Messico e Usa in Arizona, dove centinaia di croci senza nome ricordano persone morte nella ricerca del sogno americano, mentre i Samaritani di Tucson lasciano tanniche di acqua nel deserto per evitare la probabile morte per sete nell’attraversamento del deserto. Insomma, tre aspetti che mettono a nudo alcune delle profonde contraddizioni degli Stati Uniti.
“Ho deciso di realizzare ‘My America’ perché dal 2014, da quando cioè vivo negli Stati Uniti, ho capito che in quella che è considerata la più grande democrazia del mondo ogni giorno si vivono conflitti interni che producono un numero enorme di vittime, numeri di una guerra. Mi sono resa conto – ha detto la Cupisti – che le informazioni che arrivano in Europa, ma anche negli stessi Stati Uniti, tramite i media ufficiali, sono parziali e non catturano a pieno il livello di conflitti, violenza e di povertà che sono parte integrante, anche se meno evidente, della società americana. Il mio documentario dà voce anche e soprattutto a coloro che ogni giorno si battono per la giustizia sociale e per porre fine a violenze e morti che possono essere prevenute”.
E veniamo ora a Rione Sanità-La certezza dei sogni diretto da Massimo Ferrari. Scritto dallo stesso regista, con la giornalista Conchita Sannino, il documentario si sofferma sulla rinascita civile, economica e culturale del Rione Sanità, il famoso quartiere napoletano, tra bene e male, al centro di indimenticabili lavori teatrali (Edoardo De Filippo) e cinematografici (Totò, ecc), animata e diretta da padre Antonio Loffredo della Ciesa di Santa Maria della Sanità.
Proprio da questa chiesa si snodano le storie dei vari protagonisti, ragazzi che, in controcanto al mondo di Gomorra, hanno deciso di riprendere in mano il proprio destino, dando solidità e certezza ad un sogno: un’impresa che solo una decina di anni fa sembrava impossibile in questo quartiere dove l’emarginazione sociale e la disoccupazione sono sempre state elevate, nonostante le potenzialità storiche e culturali del rione, che si trova ai piedi della collina di Capodimonte, a poca distanza dal centro di Napoli e un tempo – nel XVII-XVIII secolo – area prescelta da reali, nobili e ricchi borghesi per recarsi a Capodimonte. La costruzione del Ponte della Sanità, per rendere meno tortuoso il cammino, causò l’isolamento del quartiere facendolo sembrare da quel momento una periferia di Napoli.

I protagonisti sono ragazzi che hanno preso in mano la gestione e guida delle numerose catacombe dell’antica necropoli ellenistica, scuole di teatro, musica, scultura e persino un nuovo centro sportivo. Insomma il documentarci vuole dirci che il cambiamento di un luogo può cambiare anche le anime.
Un sogno realizzato nonostante il tentativo di infrangerlo con l’uccisione del sedicenne Genny Cesarano ma realizzato anche con il sostegno dell’imprenditore Ernesto Albanese – a cui una rapina ha portato via il padre – che ha lanciato una raccolta fondi per sostenere l’impresa di padre Loffredo e creare così nuovi posti di lavoro. Vediamo un gruppo di ragazzi che dai balconi di Palazzo Sanfelice inneggiano alla libertà e alla voglia di futuro recitando le frasi di Nostalgia (2016), romanzo postumo di Ermanno Rea; c’è Miriam, divenuta guida turistica alle Catacombe di San Gennaro; Valeria, restauratrice che ha trovato lavoro proprio alle Catacombe; il neo attore Giuseppe, a cui la camorra ha portato via il fratello a 12 anni; c’è l’orchestra Sanitansamble, che ha trasformato adolescenti in esperti musicisti e c’è anche la squadra di calcio del rione, fondata da due barbieri.
“Raccontare uno dei quartieri più difficili e più belli di Napoli – ha affermato il regista -, la sua trasformazione imprevedibile fino a pochi anni fa, attraversando vicoli e sguardi per arrivare al cuore di questo rione, che è il cuore pulsante di Napoli con tutte le sue contraddizioni: è questa la vera sfida del documentario, cioè tenere insieme gli opposti, restare fedeli a questa identità unica che è la certezza che ha permesso ai sogni di avverarsi”.