C’era molta attesa per il secondo lavoro di Antonio Padovan, dopo il piacevole esordio con “Finché c’è Prosecco c’è speranza”, un giallo dal tono leggero tra le colline di Conegliano: “Il grande passo” non delude in gran parte le aspettative, presentandoci questa volta una storia fantastica, forse ingenua sì, ma di un’ingenuità che si caratterizza positivamente perché ci spinge a riflettere sulle dinamiche personali e famigliari senza essere “pesante”.
Dario Cavalieri (Giuseppe Battiston) e Mario Cavalieri (Stefano Fresi) sono il frutto di una famiglia disfunzionale: sono due fratelli tanto simili fisicamente quanto differenti caratterialmente, che si ritrovano soli di fronte a un’impresa impossibile, andare sulla Luna!
Dario, da quando a sei anni ha visto in diretta tv, in compagnia del padre (il compianto Flavio Bucci, qui al suo film d’addio) il primo sbarco dell’uomo sulla Luna, non ha mai smesso di volerci andare: grazie ad una navetta spaziale, costruita mettendo a frutto la sua laurea in ingegneria aeronautica in un capannone agricolo del Polesine, vuole realizzare il suo sogno. A causa del suo brutto carattere – che dietro un’apparente aggressività copre una persistente disperazione – si è guadagnato dai concittadini il soprannome di “Luna Storta”.
Mario, uomo bonario, attento a seguire ogni regola ma eternamente demotivato e che il fratello l’ha visto una sola volta – in occasione del compleanno del padre – gestisce con la madre un negozio di ferramenta a Roma. La sua monotona, sonnolenta esistenza viene sconvolta un giorno dallo squillo del telefono: Dario, nel suo primo tentativo di decollo, ha causato un incendio, è finito in prigione e a causa delle sue escandescenze sta per essere rinchiuso in centro per malattie mentali. La madre di Dario è morta da anni, il padre ha detto di non potersi occupare della cosa: Mario è l’unico parente che può occuparsi di quel fratello, con l’aiuto di un legale (Roberto Citran).

Nel contesto della pandemia di coronavirus, “Il grande passo” ha una valenza particolare perché sottolinea, con tono fresco, l’importanza, all’interno delle dinamiche personali, famigliari e sociali, di guardare sempre avanti, oltre i limiti di una vita che fatica a prendere il volo, a voler sempre decollare verso il traguardo dei sogni. Vuole insomma dirci che, pur nelle tante difficoltà, è necessario che questi non manchino mai perché proprio da essi possiamo trarre la forza necessaria per continuare: “Fare o non fare: non esiste provare”, dice ad un certo punto Dario a Mario.
Quanti sogni, speranze e “nuove frontiere” da conquistare suscitò nel mondo quel nuovo viaggio di Colombo che fu l’allunaggio del 20 luglio 1969: un evento che ha ormai il sapore di preistoria, di era glaciale, in un mondo dove a dominare non è più l’intrinseco dinamismo dei sogni ma la paura, la recessione e non l’idea di progresso. L’allunaggio, insomma, è qui metafora dell’attuazione di una società capace di andare oltre i pregiudizi e le sofferenze quotidiane.
Presentato al recente Film Festival di Torino, “Il grande passo” ha fruttato ai due protagonisti il premio come “Migliori attori”: il talento istrionico del primo si sposa bene con la bonarietà, l’amabilità del secondo, dando luogo a piacevoli momenti che fluttuano tra il commovente e l’esilarante. A mio modesto parere, ce ne volevano però di più, per meglio coniugare un inizio tecnicamente troppo lento con l’evolversi della storia. Complessivamente, comunque, è un film che non lascia indifferenti e che si inserisce nel filone della commedia all’italiana con spirito nuovo.
Merita una menzione particolare la bella colonna sonora creata da Pino Donaggio, qui tornato a lavorare in Italia dopo i tanti e giusti successi americani.

“Raccontando questa storia – ha detto Antonio Padovan, con il pensiero anche a E. T. – ho voluto rendere omaggio a due mondi del cinema che amo e che vivono dentro di me, irrimediabilmente impastati l’uno con l‘altro. Da un lato quello americano, un po’ infantile e sentimentalista, con cui sono cresciuto da bambino: il cinema di sognatori come Steven Spielberg, dell’ingenuità vista come valore, dell’inno alla meraviglia, dei primi piani di bambini che fissano qualcosa di fantastico, e noi con loro. Come ammirare la luna. Dall’altro il cinema della mia terra, quello silenzioso e sincero, creato da artigiani come Carlo Mazzacurati, fatto di spazi dilatati e di sentimenti delicati e autentici, traboccante di affetto per la normalità. La campagna con la nebbia, e i suoi abitanti”.