Nel tempo degli dei non succedevano le cose che succedono ora nel tempo degli uomini che si credono dei. I ruoli erano ben definiti: gli dei erano dei e potevano fare come preferivano, gli uomini no. Guai se un uomo avesse tentato di imitare gli dei. Si sarebbe macchiato della più grave colpa, l’hybris, ossia tracotanza, superbia, arroganza che l’avrebbe condotto oltre il limite dell’umano.
“Nel tempo degli dei. Il calzolaio di Ulisse” è il nuovo spettacolo di Marco Paolini e Francesco Niccolini, per la regia di Gabriele Vacis, coprodotto con il Piccolo Teatro di Milano, in scena in questi giorni al politeama Rossetti di Trieste.
Per Marco Paolini oggi il limite è stato superato e quindi lui, moderno Ulisse, arriva sulla scena e dice subito che deve fermarsi a “cag…e”. Scusate, ma il linguaggio di questo Ulisse è intercalato da parolacce e sentenze memorabili, tipo: “Uno che ca..o se ne fa dell’aldilà? – Gli immortali muoiono di noia – Deifobo, un nome come una pomata per i piedi – Gli dei dello chalet Olimpo – Sono intollerante al lattosio ”. Il drammaturgo cerca di conquistare il pubblico con il linguaggio triviale attuale, accento da kosovaro e luoghi comuni, ma non strappa risate.
Certo, oggi le persone di potere non parlano con gli dei – non ne hanno bisogno – ma credono di parlare come dei. E possono essere molto volgari e spietate. Io però vado a teatro per imparare qualcosa e soffermarmi a riflettere, non per vedere una superficiale e infantile parodia dell’Odissea. E meno male che “Paolini studia da anni la figura di Ulisse…. una profondità di lavoro….” come annunciava il comunicato stampa. Un lavoro indecente, non solo per il linguaggio triviale, ma soprattutto per il disordine del messaggio su Ulisse perché i drammaturghi in questione di mito non capiscono niente. E se una cosa non la capisci, non la sai raccontare.
Il mito di Ulisse è immarcescibile. Ogni uomo vorrebbe essere Ulisse che ne ha fatte di tutti i colori e, ormai vecchio, è stato riaccolto da Penelope. Nessuna donna vorrebbe essere Penelope, ma molte finiscono per diventarlo, ancora oggi. Ogni vita è un’Odissea e più affronti le onde più trovi risposte a domande che ti porti dentro. E se mai ritornerai ad Itaca non è detto che ritroverai quello che hai lasciato. Ma è questa convinzione che ti ha fatto anelare il ritorno.
Ulisse non è un volgare uomo d’oggi, come lo tratteggia Paolini, perché l’eroe greco rinuncia all’immortalità offertagli che non è vita. E’ troppo intelligente per fare il dio.
Nel greco antico Ulisse è una forma sincopata dialettale di Odisseo, come lo chiamò suo nonno Autolico, augurandosi divenisse l’odiato dai nemici. Ma fu anche l’odioso del femminile.
Odisseo è l’eroe tra Eros ed Eris, tra amore e conflitto. Tutti gli eroi greci hanno offeso Eros e a causa di Eros sono periti. Quasi che l’amore ti porti a confliggere. O che Eris, la lite, si insinui negli animi degli invidiosi del tuo amore o nasca dal tuo stesso animo, perché non sappiamo amare l’amore a lungo e un giorno lo scopriamo straniero al cuore.
Odisseo ha vissuto tante vite, ogni volta con una dea diversa, che ha sminuito sempre come una donnetta qualsiasi. Le ha trasformate tutte in Penelope, o almeno così ha pensato.
Ritornato ad Itaca, dopo nove interminabili anni accanto a Penelope che non smetteva di tessere la loro vita insieme, decide di riprendere il mare per farsi amare di nuovo da Circe, Calypso, Nausicaa, quelle donne che nella nostalgia ricorda divine.
Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali intitola L’ultimo viaggio il ripercorrere della vita a ritroso del vecchio Ulisse. L’inquieto mare lo riconosce “col riso innumerevole delle onde” che lo sospingono esanime, inascoltato dalle Sirene, verso l’isola di Calypso. “Il mare lo riportava alla sua dea. Lo riportava morto alla Nasconditrice solitaria”. La donna amata è sempre quella irraggiungibile.
Tutti siamo un po’ Ulisse e andiamo cercando l’amore tutta la vita. La vita è questo.