Dopo I Medici (Medici) e L’amica geniale (My Brilliant Friend), è arrivata finalmente anche la terza, grande produzione internazionale di RAI Fiction, Il nome della rosa (The Name of the Rose). Serie in 8 puntate diretta da Giacomo Battiato, produzione da 26 milioni di euro realizzata da Rai Fiction con 11 Marzo Film, Palomar e la tedesca Tele Munchen.
I primi due episodi sono andati in onda su Rai Uno il 4 marzo 2019, per la messa in onda americana bisognerà invece aspettare maggio, mese in cui verrà trasmessa da Sundance TV (Ma la serie sarà trasmessa anche su Rai Italia già dallo stesso giorno è stata trasmessa sul canale Rai Italia delle Americhe; il martedì nel Sud America e l’11 all’Africa).
Va da sé che le aspettative in Italia erano altissime: il romanzo, meraviglioso e conosciutissimo, di Umbero Eco, il sublime film di Jean-Jacques Annaud interpretato da Sean Connery, la prospettiva di un’altra serialità importante prodotta (almeno in parte) dalla televisione pubblica italiana, e il ruolo di Guglielmo da Baskerville affidato a John Turturro, attore straordinario, raffinato e intelligente. Detto questo, un commento più approfondito e appropriato si potrà fare solo una volta vista tutta la serie, adesso ci si può limitare ad alcune annotazioni sui primi due episodi e sull’idea che la serie dà di sé proprio dalle prime puntate, guardandola nel contesto internazionale in cui si pone.
Il nome della rosa è un buon prodotto, realizzata grazie a un grandissimo lavoro produttivo, con una messa in scena sontuosa e un cast (quasi tutto) di prim’ordine. E la fascinazione del romanzo di Eco c’è tutta. Ma, c’è più di un ma…
Mettiamo subito da parte il concetto che ci sono ragioni e costi produttivi che possono porre dei limiti, questo è naturale e da questo punto di vista è difficile fare paragoni con serie prodotte da piattaforme digitali come Netflix e o da televisioni via cavo che rispondono a logiche proprie diverse da quelle della televisione in chiaro.
Quindi, detto questo, è considerando la serie in sé che sorgono alcuni dubbi non tanto sulla qualità dell’operazione quanto sul tipo di operazione fatta.
Se le scenografie di Francesco Frigeri sono perfette, tra le location in Lazio, Umbria e Abruzzo e l’abbazia (come anche altri ambienti) ricostruita in studio a Cinecittà, altre scelte non sembrano adeguate a una serie di qualità che si vuole porre come un prodotto internazionale che sia competitivo nel 2019.
Il primo episodio ci introduce al momento storico – siamo nel 1327, in piena guerra tra Papa e Imperatore, e anche in piena guerra all’interno della Chiesa stessa, con il Papa contro gli eretici ma anche contro l’ordine francescano. Religione e politica quindi. Ma soprattutto ci introduce nel mondo intellettuale del francescano Guglielmo da Baskerville e nell’acume del suo personaggio e dei suoi ragionamenti. Però lì dove Turturro fa un ottimo lavoro dando, accanto alla severità della sostanza, modernità e arguzia al suo protagonista, sceneggiatura e regia procedono a passo lento, molto lento, indugiando su dialoghi e ragionamenti, con la preoccupazione di restare fedeli al romanzo e al tempo stesso di sottolineare concetti e citazioni che vadano a spiegare l’epoca ma che siano anche rilevanti nel commentare il nostro presente (“governanti ciechi guidano popoli ciechi verso l’abisso”, appunto). Insomma, detto in altre parole, il primo episodio è un pochino noioso. Il racconto è inframmezzato via via dalla presentazione, a dire il vero un po’ maldestra, dei vari personaggi: tutti bravi gli attori e ben diretti, qualche dubbio c’è per ora su Rupert Everett che si sforza un po’ troppo con il suo Bernardo Gui.
Per avere il senso del mistero dato dal giallo e dalle ambientazioni medievali, occorre però aspettare il secondo episodio (inoltrato), dove appunto si avvia l’indagine e si entra nell’atmosfera del tempo (e del romanzo). Il buon meccanismo narrativo del giallo, la presenza di Turturro, le scenografie e i costumi, oltre a un trucco e parrucco decisamente vistoso ma efficace, servono bene la causa, mentre lo stesso non si può dire della fotografia di John Conroy, molto bella ma in fondo sbagliata. I colori desaturati (con il solo contrasto dei colori delle boccette erboristiche o dei disegni, elementi chiave dell’indagine), una luce chiara che pervade uniformemente le immagini appiattendole, forse una color correction troppo marcata fanno sì che da una parte si perda il senso di cupezza, di inquietudine e di mistero e dall’altra fanno scivolare la serie dal piano internazionale alla fiction italiana più tradizionale. Quest’ultimo punto rimarcato dal fatto che la serie, pur essendo stata girata in inglese con un cast internazionale, è stata mandata in onda doppiata, con un doppiaggio che appiattisce tutto e che, anche questo, ci riporta subito alla nostra vecchia fiction, seppur ben fatta.
Questa era l’occasione perfetta per la nostra televisione pubblica per cominciare a mandare in onda una serie in lingua originale sottotitolata. Tanto più con l’occasione di quella che è stata giustamente annunciata come “serie-evento”. Non basta più la scusa che il pubblico italiano è anziano, non è abituato ai sottotitoli e tutto il resto, il pubblico bisogna cominciare ad abituarlo un pochino alla volta, se no non se ne esce. Ormai tutti i paesi, non solo gli Stati Uniti, producono serie di alta qualità che vendono in tutto il mondo, ormai occorre mettersi su un piano che va oltre i confini nazionali, bisogna alzare l’asticella e alzare anche le ambizioni, di chi la serialità la produce e di chi la guarda. Il nome della rosa è un buon prodotto, ben confezionato, ma per essere veramente competitivo non basta avere le spalle coperte dal grandioso romanzo di Eco (che comunque, per inciso, per sua stessa ammissione nemmeno Turturro conosceva prima che gli venisse offerto di interpretare la serie), occorre mettersi sullo stesso piano della grande serialità contemporanea, che si tratti di ambientazioni d’epoca, di crime in tutte le sue declinazioni glocal o di serialità di prestigio, dove l’autorialità o l’innovazione tematica o formale hanno un peso specifico importante.
Con Il nome della rosa l’impressione è che Rai Fiction abbia fatto un grande passo avanti, e lo aveva già fatto con L’amica geniale realizzata con HBO (serie che pur hai dei limiti se si va a ragionare di internazionalità), ma che non sia ancora veramente all’altezza perché rimane troppo tradizionale. Ecco, forse il termine più adatto è proprio tradizionale, quasi conservatrice a tutti i costi, per timore, in un momento in cui la televisione in tutto il mondo – pubblica, privata, via cavo, piattaforme digitali – è in uno dei suoi momenti più alti (si parla di un terzo rinascimento televisivo infatti), in cui produce i suoi lavori più belli e importanti, al di là di e nonostante numeri e algoritmi.
Nelle prossime settimane tutti continueremo a guardare Il nome della rosa, ognuno per ragioni diverse: perché abbiamo amato il libro, perché abbiamo amato il film, perché siamo curiosi, perché dovremo parlarne e scriverne, perché ci appassiona, o semplicemente perché è su Rai Uno e si guarda quella. Ci piacerà oppure no, ognuno farà le proprie considerazioni. La serie avrà delle ottime recensioni sui giornali e sui siti italiani e ne avrà di più tiepide su quelli internazionali, i numeri andranno bene (è già stata venduta in tantissimi paesi) e saremo tutti abbastanza contenti. Però potremmo e dovremmo fare meglio, anche e soprattutto con la nostra televisione pubblica: possiamo fare televisione – o piuttosto cinema a episodi – di grande qualità, altre serie italiane in questi anni lo hanno dimostrato e il pubblico internazionale le ha apprezzate molto, alcune le anche amate alla follia! Così magari un giorno anche gli spettatori di Rai Uno potranno avere non solo Il nome della rosa ma addirittura qualcosa di più.