Dopo essere stato ospite durante la prima edizione della Festa nel 2006, il regista premio Oscar Martin Scorsese è tornato a Roma per ricevere il premio alla carriera dalle mani di Paolo Taviani. Accolto sul palco da una standing ovation, il regista newyorkese ha selezionato nove film italiani compresi in un periodo di tempo che va dal 1952 al 1962. Da Antonioni a Fellini, da Visconti a Germi, sono loro i registi che più di altri lo hanno ispirato prima di diventare regista. “Quando avevo cinque anni avevamo a casa un piccolo apparecchio televisivo, in cui vedevo i film del neorealismo italiano”, racconta Scorsese. “Roma città aperta, Ladri di biciclette, Sciuscià. Per me non era cinema, mi sembravano la vita vera, come se stessero accadendo a New York in quel momento”.
L’incontro ravvicinato con il pubblico, condotto da Antonio Monda, si trasforma così in una vera e propria lezione di cinema. Si parte con Accattone di Pasolini. “Un’esperienza potente, l’ho visto per la prima volta al New York Film Festival nel 1963 o 1964. Sono cresciuto in un quartiere difficile ed è il primo film in assoluto che mi ha fatto identificare totalmente con dei personaggi. Ovviamente è sempre difficile parlare di Pasolini. Quando vidi Accattone però non avevo la minima idea di chi fosse ed è stato per me un lampo, uno shock. Sono stato colpito soprattutto dai riferimenti religiosi. Il protagonista muore tra due ladroni, la prostituta si chiama Maddalena. Emerge soprattutto la santità dell’animo umano. E poi la musica di Bach in sottofondo che anche io ho usato in Casinò”. Il secondo, invece, è uno dei meno noti della carriera di Roberto Rossellini, La presa del potere di Luigi XIV, un film per la tv del 1966, “attraverso il dettaglio Rossellini sapeva raccontare la Storia”, e poi Umberto D (1952) di Vittorio De Sica con una delle scene più strazianti della storia del cinema, “è l’apice del neorealismo con la purezza e l’ironia di De Sica”. E ancora Il Posto (1961) firmato da un regista scomparso recentemente, Ermanno Olmi. “Un film che ho sentito molto vicino a me perché è come se l’umanità venisse tagliata fuori”.
L’eclisse del 1962, diretto da Michelangelo Antonioni, é invece il film italiano che più ha avuto influenza sul cinema di Scorsese, “tutto in Antonioni apparteneva a una fantascienza narrativa. Con la sua trilogia di film, completata da L’avventura e La notte, ha rivoluzionato il linguaggio cinematografico, ci ha mostrato l’alienazione, l’assenza di spirito, la mancanza d’animo”. A Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Gemmi, Scorsese si è ispirato quando ha girato il suo capolavoro, “Quei Bravi ragazzi”. “Ogni volta che lo rivedo mi colpisce il bianco e nero, lo stile satirico espresso, la scena di apertura e la faccia di Mastroianni. L’arguzia che cerco di mettere nel mio cinema l’ho imparata da lui”. Ma allora perché le commedie non vincono mai l’Oscar? “Non lo so, presumo perché il cinema quando è intrattenimento non viene preso seriamente. Ma Aristofane ed Eschilo erano divertenti ed era intrattenimento”. Arrivano le scene del settimo film, è Salvatore Giuliano del 1962 di Francesco Rosi, “il regista ti mostra i fatti che non sempre corrispondono alla verità. La madre del bandito che si dispera sul corpo del figlio è La Madre. Il criminale diventa figlio, l’umanità totale. Un film che rappresenta anche la tragedia e le sofferenze del Meridione e della Sicilia da cui partirono i miei nonni nel 1910. Mi sono chiesto come mai non si fidassero di qualsiasi istituzione”. E poi Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, “questo film e Rocco e i suoi fratelli mi hanno insegnato come coniugare l’impegno politico con l’opera lirica, con il melodramma sfrenato, senza briglie, senza vincoli. Ne Il Gattopardo, mi colpisce soprattutto il passaggio del tempo dove si dice che «affinché tutto rimanga com’è, tutto deve cambiare», il principe Salina impara a fare un passo indietro. Ultimissima cosa che ci tengo a dire: Donnafugata è la città d’origine di mia nonna”.
L’incontro si chiude con le immagini de Le notti di Cabiria di Federico Fellini (1957), “il finale di questo film evoca la rinascita spirituale. Fellini l’ho incontrato più volte negli anni, stavamo quasi per fare un progetto insieme, un documentario, o meglio quella che sarebbe stata la sua versione felliniana di quel documentario, ma purtroppo poi ci ha lasciati. Mi diceva: “quando devi fare un’esterna, fermati dove c’è un ristorante buono, anche se la scena non ti serve a niente”.