Girato con uno smarthphone da 38 migranti minori non accompagnati (negli ultimi 3 anni ne sono arrivati 70 mila in Sicilia), “Tumaranké” è un vero film-documentario, una sorta di storia di vite in diretta, un mix perfetto di sogni, ricordi e speranze di un futuro migliore. Sta girando i vari festival italiani (è stato anche a Spoleto, Trieste, Palermo) e in autunno verrà presentato all’estero.
“Tumarankè”, prodotto da Dugong Films in associazione con Off (Italia), Road Movie (Italia), Picofilms (Francia), Shoot&Post (Svezia), è il frutto di Re-future, progetto europeo (unione delle parole Refugee e Future) a sostegno dei minori stranieri non accompagnati e che sfrutta la forza trainante dell’innovazione tecnologica come strumento di integrazione culturale.
Per un anno il progetto ha coinvolto 38 giovani in un workshop di educazione all’immagine e filmaking. Sono proprio questi ragazzi i protagonisti assoluti di questo lungometraggio dove raccontano la loro vita, le loro aspettative, i sogno futuri. “Tumarankè” – che nella lingua bambara rimanda al concetto di “viaggio alla ricerca di un futuro migliore”, tocca le corde dei sentimenti quando si parla di terra natia, nostalgia della famiglia, ricordo di casa, scuola, lavoro, esperienze di integrazione in un nuovo paese dove, giorno dopo giorno, mentre imparano una lingua, scoprono e ci fanno scoprire che una cultura dell’inclusione è possibile, gettando così le fondamenta per un futuro comune.
Il documentario apre una finestra sulla loro vita quotidiana per la prima volta vista dal loro personalissimo punto di vista. Un diario intimo e sorprendente, ma non solo: perché ad emergere è anche uno spaccato della nostra società contemporanea vista attraverso i loro occhi. Un modo per riflettere anche sui punti di forza e le criticità del complesso sistema europeo dell’accoglienza.
Un toccante documentario che suscita anche una riflessione (per carità, evitiamo le sciocchezze leghiste tipo “altro che poveri, hanno tutti il cellulare”, come nel ’68 si bollavano le persone di sinistra che “non avevano le pezze al culo”!!) : è innegabile che lo smartphone è, per i migranti che se lo possono permettere, l’unico legame tra quello che lasciano e quello che li aspetta, uno strumento per scoprire il Paese che li sta ospitando, mantenere i contatti con la famiglia d’origine e intessere nuovi rapporti sul luogo di approdo.
Tante storie, tutte toccanti in modi diversi, alcune amare, altre piene di speranza. C’è Mor, diciassettenne del Gambia, imprigionato a lungo in Libia e arrivato in Sicilia nel 2017, che si riprende mentre scrive un diario per poter raccontare un giorno ai suoi figli questo momento della sua vita. “Nella vita – dice – dobbiamo sempre affrontare le cose che ci capitano: quest’esperienza mi ha dato molto coraggio, dopo tutto quello che ho passato, mi ha incoraggiato a guardare avanti e dimenticare le cose brutte». C’è Ahmed, della Costa d’Avorio, che non ha ripreso mai se stesso ma ha filmato con spirito documentaristico i suoi amici, le lezioni a scuola, e la vita a Ortigia. C’è anche chi, come Lamin, della Guinea, che adesso lavora in un negozio di riparazione elettronica e si filma mentre soddisfatto ripara uno smartphone e formatta un computer. E c’è anche Meka, del Mali che ama il rap e i piccioni viaggiatori, il suo nome d’arte è Big Boss e si filma mentre a suon di rap, con una canzone dedicata proprio ai “tumarankè”, racconta la sua storia, dal Mali al Niger alla Libia e poi finalmente in Italia.
Sono stati quasi mille i video realizzati dai 38 ragazzi, curati e montati da Marta Tagliavia di Dugong Films, società capofila del progetto, e Camilla Paternò. Nessuno però girato da ragazze. “Abbiamo cercato in tutti modi di coinvolgere anche le ragazze, ma alla fine purtroppo non hanno potuto partecipare al workshop perché non possono avere un telefono fino al compimento della maggiore età – ha spiegato Marta Tagliavia -. Sono spesso vittime di tratta e il rischio di essere intercettate dai trafficanti sarebbe troppo alto”.