
Questa volta parliamo di cinema, ma indirettamente anche di poesia. Raccontare la creatività artistica, un mondo così “interno”, intimo, psichico, con il cinema, che ha bisogno invece di mostrare, non è facile. O meglio: se l’artista è un po’ fuori di testa la soluzione è semplice, si mostrano le sue intemperanze – alcoliche, sessuali o altro – e il gioco più o meno è fatto. Anche se poi a volte allo spettatore rimane un dubbio: l’arte sarà il prodotto di quelle intemperanze, o al contrario è l’arte che giustifica le intemperanze, la sregolatezza? E poi, altro dubbio, molto più pratico: dove avrà trovato il tempo l’artista per realizzare quegli splendidi quadri, o scrivere quei romanzi così profondi, se era impegnato a fare tutt’altro?
Con Emily Dickinson, la grande poetessa americana (Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886) che trascorse gran parte della sua vita chiusa nella casa di famiglia, tutto questo non è possibile. Non ci sono grandi storie e colpi di scena da raccontare, se non quelli ordinari, che scandiscono ogni esistenza: il rapporto con genitori e familiari, i lutti, un innamoramento (non corrisposto), rare amicizie. Il tutto nel cuore dell’America puritana di metà 800.
La sfida che il regista di A quiete passion, Terence Davies, ha raccolto, era insomma piuttosto impegnativa. Il risultato, appena giunto sugli schermi cinematografici italiani (anche se il film è del 2016) è notevole: forse neanche questa volta un film è riuscito a mostrare fino in fondo da dove scaturisca quella magia che chiamiamo creatività, talento, estro, quella dote – che alcuni possiedono e altri no – di raccontare se stessi e la vita attraverso un medium artistico. Ma è riuscito nell’intento di raccontare almeno le circostanze in cui un temperamento artistico si sviluppa, e gli ostacoli, a volte insuperabili, che incontra sul suo cammino.
Non solo: il film ci mostra che una vita priva di grandi eventi o di grandi trasgressioni non è per questo meno intensa di altre sul piano intellettuale ed emotivo. Dickinson, interpretata qui da una straordinaria Cynthia Nixon (che non ci fa mai pensare a Sex and the City) era un’autrice metodica: scriveva la notte, dalle 3 a.m. all’ alba (aveva chiesto il permesso al padre per farlo), e poi cuciva assieme i suoi componimenti, scritti perlopiù su piccoli foglietti, che vennero ritrovati dopo la morte, nella sua stanza. Poco meno di duemila. In vita pubblicò pochissimo, nell’ordine di una dozzina di poesie, e venne ferita dalle manipolazioni a cui l’editore le sottopose per renderle più “accessibili”. In famiglia e nella ristretta cerchia delle frequentazioni domestiche tutti sapevano della sua passione, ovviamente. Ma al di fuori delle mura della proprietà dei Dickinson, nel vasto mondo che temeva e forse un po’ disprezzava, la poetessa ha sfondato solo un secolo dopo.
Il cuore del film è rappresentato dai dialoghi, brillanti, ironici, a volte persino un po’ troppo teatrali. Dialoghi che dicono bene la ricchezza della vita interiore di Emily e di alcuni dei suoi interlocutori, in particolare un’amica di famiglia in cui scorge una sorta di “anima gemella nell’anticonformismo” (fino a quando quest’ultima non si sposa).
La passione, anzi, le passioni, non mancano. Sono, sì, passioni quiete, come ricorda il titolo dell’opera: in parte perché socialmente condivise – la religione in primis, la metà dell’800 fu un periodo di forte revival religioso – in parte perché represse. Quando emergono, e danno scandalo, vengono stigmatizzate. Persino dalla poetessa, che rimprovera aspramente al fratello una relazione extraconiugale (soprattutto l’ipocrisia di una relazione extraconiugale, ma anche la scelta concreta della persona con cui consumarla), pur avendo coltivato lei stessa un’analoga fantasia – destinata a rimanere tale – nei confronti di un pastore protestante.
Il primo conflitto, con cui si apre il film, è quello con l’istruzione, anch’essa a forte carattere religioso, che determina l’allontanamento di Emily dall’Istituto in cui studiava, il College Femminile di Mount Holyoke, e il suo ritorno fra le mura domestiche, la sua dimensione d’elezione. Poi verranno altri conflitti, più smorzati: con un ammiratore, che respinge; con un editore, che cambia la punteggiatura ai suoi componimenti.
La famiglia, per come ci viene mostrata, rappresenta un specchio della società americana dell’epoca, a cavallo della Guerra civile. Un padre con posizioni di rilievo nella comunità, molto religioso ma anche per certi versi tollerante nei confronti della “vivacità” dei figli, più accentuata in Emily ma non assente nel fratello Austin e nella sorella Vinnie; una zia irrimediabilmente bigotta, un po’ macchiettistica; una madre condannata al ruolo che la società dell’epoca riservava alle donne (al centro di un breve monologo che rappresenta uno dei momenti più toccanti del film).
Il tema dominante della seconda parte è però la morte, mostrata allo spettatore più volte e nel dettaglio, pur con tutta l’eleganza formale che contraddistingue il lavoro di Davies, in questo senso davvero impeccabile. E’ la morte così com’è: complicata, lunga, priva di consolazione. Emily ne era ossessionata, pur vestendo sempre in bianco, anche nei periodi di lutto.
La passione più forte resta però naturalmente quella per la poesia. E’ la poesia a dare un senso alla vita di Emily Dickinson, anche se non successo e riconoscimento sociale. La poetessa volontariamente reclusa amava le Brontë, e detestava Longfellow. Credeva che la missione della poesia fosse dire la verità, tutta la verità, ma dirla obliquamente, perché altrimenti avrebbe potuto accecare. Il suo amore per la brevità, e per i temi universali dell’amore, il dolore, la speranza, dio, resi anche con parole e immagini comuni, la brezza, l’uccellino, il cappello, l’arcobaleno, il cuore, il faro, ha affascinato generazioni di lettori, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo. Dickinson era moderna, anche se non modernista. Era metafisica, come lo si può essere trascorrendo una vita in camera da letto. Ed era accessibile, a differenza di altri poeti dell’epoca. Anticipava gusti che si sarebbero diffusi molto più tardi. Oggi è fra le voci poetiche più famose in assoluto. Nel film le poesie fanno da contrappunto alle vicende raccontate. Vengono lette da una voce fuori campo. Una maniera onesta, anche se non particolarmente originale o ricercata, di raccontare con la più visiva delle arti ciò che visibile non è.