Un uomo, diverso da chiunque altro – indossa un camice ospedaliero, porta una gabbietta vuota e ha il viso di un bianco traslucido – entra in un ristorante. I clienti mangiano, ognuno preso dai fatti propri, ma non possono fare a meno di notarlo. Alcuni sembrano a disagio, altri hanno la stessa faccia bianca. Non è una barzelletta del tipo “un tizio entra in un bar”, è una situazione reale, o meglio teatrale. Il padrone del ristorante gli si avvicina e lo fa uscire. La sua presenza solitaria è fastidiosa, anche se lui sta per conto proprio, non ha fatto nulla di particolare, ma deve andarsene. Il video apre lo spettacolo di Dario D’Ambrosi Tutti Non Ci Sono/We are Not Alone, il monologo che ha aperto la sesta stagione di In Scena! Italian Theater Festival NY.

Lo spettacolo, che ha debuttato negli USA nel 1980, a La MaMa, è stato scritto e diretto da D’Ambrosi in conseguenza della rivoluzionaria Legge sugli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” (conosciuta anche come Legge Basaglia o Legge 180). La Legge decretò la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici, la dimissione dei pazienti e la loro ricollocazione in strutture di cura alternative a carattere comunitario. Il giovane D’Ambrosi che vaga senza scopo nelle strade di New York rappresenta dunque tutti quei pazienti che, una volta dimessi dalle istituzioni psichiatriche, semplicemente non avevano dove andare. Molti furono abbandonati sulle strade, solo pochi ricollocati, anche se la legge afferma che nessuno doveva essere reintrodotto in società senza il proprio consenso, non sembra questo il caso. Alla fine del video vediamo il paziente arrivare a La MaMa ed entrare attraverso le porte. Era il 1980, nel 2018, oggi, il paziente entra al Cherry Lane Theater di Manhattan, nello sconcerto di tutti. Porta ancora la gabbietta vuota, ancora indossa un camice ospedaliero e le pantofole. Si presenta a tutti quelli che riesce a toccare, fa domande dirette, dispensa abbracci, sputa fuori scomode verità (“Perché porti gli occhiali?” chiede “non è meglio non vedere niente?”), fa ridere la gente.
Momenti di risate alternati a momenti di preoccupazione, quando il pubblico vede che a questo strano uomo accadono degli incidenti, quando la voce nella sua testa viene fuori. Fa paura, e non solo per il timbro – tuonante e minaccioso – ma anche per ciò che dice e gli impone di fare. Soffre di schizofrenia. Lo vediamo infilarsi le mani in bocca nel tentativo di tirar fuori qualcosa di invisibile…la voce invisibile che non vuole uscire, che non appare sul suo certificato di nascita, anche se è con lui da sempre. “Perché è qui?” “Perché non è come per gli altri? Tutti quelli che sono normali?”

Ma ci sono anche quelli come lui – il suo amico Tommasino, Masino, la cui testa è stata tagliata a fette da vari dottori che cercavano invano qualcosa lì dentro. Pare che non sapessero neanche cosa cercare. Dopo l’operazione Masino non è più lo stesso, ma i dottori non sembrano preoccuparsene, appaiono piuttosto indifferenti. Durante la performance il personaggio del medico è sul palco fin dall’ingresso del pubblico, siede lì in silenzio, schiena alla platea ma anche al paziente. È distante, non simpatetico, non vuole essere toccato, non vuole parlare di nulla di personale e sembra comunicare solo attraverso ordini. E quando il paziente reagisce con violenza gli taglia a fette la testa, come ha fatto con Masino.
Alla fine il paziente si sveglia, ma non è più lo stesso. Nulla è più lo stesso. La sagoma dell’uomo che è entrato un’ora prima ora esce, con il vuoto negli occhi. Con una faccia bianca, traslucida.