Favino e Koltès. Un duo che è arrivato sul palco del Festival più popolare che ci sia, quello di Sanremo, e che ha fatto, per quattro minuti soli, tremare i polsi di una parte di Italia mentre scandalizzava l’altra parte. Un monologo di un immigrato che vorrebbe fermarsi sull’erba a parlare all’amico – uno sconosciuto che chiama amico.
Un pezzettino breve, che ha avuto anche la dote di portare un po’ di sano teatro, fatemelo dire, in televisione, in un orario decente e in un programma seguito da moltissimi. Un pezzettino che fa parte di uno spettacolo che Pierfrancesco Favino porta sui palcoscenici di tutta Italia da tempo, lui solo, con la regia di Lorenzo Gioielli. L’ultima volta è stata a Roma, al teatro Ambra Jovinelli di Roma, poco prima dell’evento sanremese. Il titolo dello spettacolo, come quello dell’opera di Koltès, è Notte poco prima delle foreste ed è stato scritto dal drammaturgo e regista francese nel 1976. La prima traduzione in italiano venne pubblicata dalla casa editrice Gremese solo nel 1990, quando comunque la prima assoluta dello spettacolo avvenne sempre nel 1977 al celebre Festival di Avignone. Ma chi è Koltès e di cosa parla questo testo? Considerato uno degli scrittori più importanti del 1900, Bernard-Marie Koltès inizia a scrivere testi teatrali a cavallo fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta. Scrive, dirige teatro e cinema, la sua scrittura e i temi affrontati sono estremi e difficili di solito da affrontare. Immigrazione, solitudine, razzismo, omosessualità (lui stesso era omosessuale e morì a Parigi nel 1989 di conseguenze dovute all’AIDS), la violenza contro l’altro diverso da noi, la lotta di classe: questi sono molti dei temi affrontati dallo scrittore. I suoi spettacoli sono ancora rappresentati in tutta Europa e uno dei suoi testi Combat de nègre et de chiens ebbe il debutto a New York, a La Mama nel 1981.

In Notte poco prima delle foreste è un uomo a parlare, un uomo solo, nel nulla, rappresentato nella messa in scena di Gioielli da un palcoscenico vuoto con una struttura moderna sullo sfondo dove si accendono di tanto in tanto luci accecanti al neon. L’uomo parla, con un accento straniero. Può essere arrivato da qualsiasi luogo, l’accento indica solo una provenienza da immigrato. Immigrato, vale a dire indesiderato, vale a dire invisibile o inguardabile, vale a dire solo, emarginato, additato. Un bersaglio, come racconta l’uomo stesso a quello sconosciuto a cui ha chiesto una sigaretta e che lui chiama amico, perché di comprensione e amore ha bisogno. Le parole sono forti, raccontano della ricerca di una casa, di un luogo che sia possibile chiamare casa, di viaggi continui con gli spari addosso, di deserti dietro le spalle – a Sanremo la luce di spalle che avvolgeva Favino da dietro dipingendo una sagoma che non ha una identità precisa. Nello spettacolo, Favino fa di questo uomo un arcobaleno di emozioni che fa provare a pubblico, senza mai cadere nell’ovvio e nel troppo. Calibra ogni parola e emozione, facendoci entrare piano nelle lacrime di questo personaggio. Va fra il pubblico, torna sul palcoscenico, si siede, cammina, abbassa la testa, sorride, piange. La rabbia, la stanchezza, la disperazione si vedono in un solo momento dello spettacolo: in quei quattro minuti proposti a Sanremo.
Il resto è un celare, un abbozzare, un provare a sorridere per fermarsi un attimo a parlare, a condividere la propria storia – e dunque le proprie disperazioni – con quello sconosciuto che forse lo ascolta. Scrive Favino: “Mi sono imbattuto in questo testo un giorno lontano, mi sono fermato ad ascoltarlo senza poter andar via e da quel momento vive con me ed io con lui. Mi appartiene, anche se ancora non so bene il perché. È uno straniero che parla in queste pagine. Non sono io, la sua vita non è la mia eppure mi perdo nelle sue parole e mi ci ritrovo come se lo fosse. Il suo racconto mi porta in strade che non ho camminato, in luoghi che non ho visitato. Come un prestigiatore fa comparire storie di donne, di angeli incontrati per caso, di violenze e di paura di ciò che no conosciamo. Forse è anche a questo che serve il Teatro e mi auguro di riuscire a portarvi dove lui porta me.” Quei quattro minuti sono stati intensi e hanno mostrato a tutta Italia e a parte del mondo l’uomo che tanto Favino ama anche senza sapere perché. Le polemiche sinceramente mi sembrano gratuite e parte di un mondo fatto di social dove è bello urlare e ci conferma che esistiamo. Il teatro è nato con una funzione catartica e nonostante lo schermo e la trasmissione nazionalpopolare, questi quattro minuti hanno confermato che il teatro ha ancora questa funzione. Da teatrante non posso che esserne felice.