In tutti gli altri eventi, piena è la donna di paure, e vile contro la forza, e quando vede un ferro; ma quando, invece, offesa è nel suo talamo, cuore non c’è del suo più sanguinario.
Fece scalpore, nel V secolo a.C., la Medea di Euripide. Fece scalpore perché, per la prima volta, la figura tragica per eccellenza – ricca di chiaroscuri e contraddizioni –, e assoluta protagonista della scena era una donna. Una donna – Medea, appunto, sposa di Giasone, capofila degli Argonauti che lei stessa aiutò a conquistare il “vello d’oro” – orgogliosa, che si rifiuta di arrendersi al destino per lei pensato dal marito, intenzionato a ripudiarla per sposare Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto. Fu dunque un dramma, per così, dire, “rivoluzionario” all’epoca, destinato a destare scandalo. Ma la versione che è stata messa in scena da Dario D’Ambrosi all’ONU – con protagonisti Almerica Schiavo, nel ruolo di Medea, e Mauro F. Cardinali, nel ruolo di Giasone e che conserva parti in greco antico – è “particolare” anche per i nostri tempi: tempi in cui Medea stessa viene da alcuni considerata insostituibile archetipo femminista. Perché grazie alla Missione italiana alle Nazioni Unite, D’Ambrosi ha portato al Palazzo di Vetro il suo “Teatro Patologico”, riuscitissimo percorso della scuola di formazione teatrale per ragazzi diversamente abili “La Magia del Teatro”, che ha coinvolto circa cinquanta ragazzi disabili psichici e fisici di tutte le zone di Roma. E non è peraltro la prima trasferta all’estero: perché nel 2013 lo spettacolo aveva già debuttato a Londra, vincendo il Wilton’s Price come miglior rappresentazione straniera della relativa stagione teatrale, per volare poi a New York in un altro emblema della storia del teatro mondiale, il Cafè La Mama.
Indubbiamente, però, la messa in scena di questa inimitabile versione della Medea di Euripide al Palazzo di Vetro, tempio della diplomazia internazionale, si carica di un significato politico, oltre che artistico: un’opera che sin dalla sua genesi parla della ribellione (del tutto fuori dal comune per l’epoca) di una donna – seppur ribellione in sé tragica e dalle conseguenze devastanti – diviene simbolo della riscossa di un’altra categoria di emarginati del nostro tempo: i portatori di handicap. Che spesso, nella vita di ogni giorno, devono affrontare tante barriere: psicologiche, culturali, sociali, oltre che architettoniche.

La tragedia, dunque, si svolge lungo tutta la performance su due piani: quello teatrale e quello metateatrale, davanti e dietro le quinte. Un imponente sentimento drammatico prende lo spettatore, e nel conflitto dell’umano in tutte le sue forme si risolve il senso stesso dello spettacolo. Seguendo la trama, si rimane pervasi del concetto di tragico formulato, in origine, nella Poetica di Aristotele: fu proprio lui, infatti, a definire la tragedia la “rappresentazione e ricostruzione delle vicende umane non come effettivamente si sono svolte (poiché questo è compito della storia), ma secondo criteri di verosimiglianza e necessità”. E nella figura di Medea possono e hanno potuto immedesimarsi tante donne di ogni tempo: è proprio da qui che si scatena quella che il filosofo chiama la “catarsi”, intesa come esorcizzazione e liberazione dalle passioni, grazie alla loro progressiva razionalizzazione, forma che permette all’uomo di elaborarle.
La potenza della tragedia greca sta proprio qui: e cioè nel fatto che, come teorizzò Maxwell Anderson, non lascia alla tragedia moderna alcuna necessità di rinnovare i propri argomenti: secondo lo studioso, infatti, la coscienza umana non è così cambiata dai tempi degli antichi, e le basi della commedia e della tragedia sono rimaste sostanzialmente le stesse per tutto il corso della storia. Per questo, il teorico ha solo bisogno di cercare ciò che tutte le grandi opere riconosciute hanno in comune, sia nella struttura che nella funzione.
Se dunque anche per lo spettatore di oggi che assiste alla Medea non è difficile che scatti la catarsi aristotelica, nella versione offerta dal Teatro Patologico la catarsi scatta due volte: perché, ad essere esorcizzata, non è solo la tragedia della donna innamorata calpestata e rifiutata, ma anche la “diversità” di esseri umani dalla natura drammaticamente “deficitaria”, e dunque impietosamente relegati ai margini della società. Tuttavia, oltre alla catarsi, in questo caso scatta la reazione: e se Medea reagisce al suo dramma condannandosi, con il quadruplo omicidio di cui si macchia (del marito, della sua nuova consorte e dei suoi stessi bambini), all’infelicità eterna, quegli uomini che mettono in scena il dramma tipicamente umano dell’amore infelice si riscattano del “limite” (quale tragedia più connaturata all’umano di questa) che portano impresso nei propri corpi attraverso la recitazione. Dimostrando, e qui sta l’apice del riscatto, che quel limite può essere, appunto, esorcizzato, se non addirittura superato.
In questa versione della Medea euripidea, dunque, sembra individuarsi l’apoteosi di quello spirito che Nietszche, nella sua Nascita della Tragedia dallo Spirito della Musica, definiva “dionisiaco”: perché Dioniso è simbolo dell’ebbrezza, sintesi del pessimismo greco non decadente, che per il filosofo significava “gettare lo sguardo nell’abisso”, confrontarsi con l’orrore dell’esistenza senza esserne piegati, accettandolo e – secondo una formulazione successiva – “dicendo sì alla vita”. L’accettazione dell’orrore è comune a Medea e agli attori del Teatro Patologico, seppur in modalità diversa: la prima rifiuta di piegarsi al suo ripudio, diviene essa stessa artefice della propria sorte tragica e reagisce ad essa ma in senso negativo; nel caso dei secondi, invece, l’accettazione dell’orrore è accettazione del proprio limite, rifiuto a piegarsi ad esso e, dunque, volontà positiva e costruttiva di superarlo . Il paradosso è che, per Nietszche, Euripide rappresentava l’inizio della fine della grande tragedia greca, caratterizzata dall’equilibrio tra dionisiaco e apollineo – quest’ultima, invece, la componente più razionale –. La tragedia euripidea e socratica, a suo avviso, rappresentavano piuttosto le manifestazioni di un genere più decadente, dove la componente apollinea prevaleva su quella dionisiaca.
Chissà se Nietszche l’avrebbe pensata così anche di fronte alla Medea del Teatro Patologico. Certo: la nostra è indubbiamente una provocazione. Ma una cosa è certa: nel dramma euripideo reinterpretato da D’Ambrosi un lieto fine, almeno a livello metateatrale, c’è. Ed è quello degli attori stessi che, nella rappresentazione del dramma dell’umano, esorcizzano il proprio. Una catarsi che è sottesa allo stesso, opportunissimo nome dell’iniziativa, “Teatro Patologico”. Perché “pàthos”, in greco, non indica solo la “malattia” fisica, ma anche le “passioni”: e quel teatro, dunque, non è “patologico” solo perché i suoi attori sono accomunati dalla medesima condanna – le diverse “patologie”, appunto, che li affliggono –; ma lo è anche in quanto capace di lenire, e far accettare, i turbamenti che, in modo vario ma senza scampo per alcuno, affliggono l’animo umano. E rieccola qui, la catarsi. Proprio come, migliaia di anni fa, aveva teorizzato Aristotele.