Don’t forget me («Al tishkechi oti») dell’israeliano Ram Nehari è il vincitore dell’edizione 2017 del Torino Film Festival, scelto come miglior film dalla giuria presieduta da Pablo Larraín (Cile) e composta da Gillies MacKinnon (UK), Petros Markaris (Grecia), Santiago Mitre (Argentina), Isabella Ragonese (Italia). Una ragazza anoressica ricoverata in un ospedale di Gerusalemme e un suonatore di trombone fuori di testa, si incontrano in un centro di riabilitazione per disturbi alimentari. Tra i due nasce una fortissima intesa che si trasforma in un atto di ribellione contro un mondo che li giudica socialmente inadatti e quindi li condanna all’emarginazione. Non è facile toccare temi come la malattia mentale senza farsi ingabbiare dai soliti stereotipi e dai soliti clichè. Il film ci riesce egregiamente e ci ricorda quanto, quando si parla di individui, sia trasversale e labile il confine tra follia e normalità. “Per anni – spiega il regista – ho seguito e diretto cortometraggi realizzati da persone con problemi mentali. Il film si basa su queste esperienze e contiene tutte le mie ossessioni, ciò che mi dà fastidio e ciò che mi fa ridere. Penso sia importante che risulti divertente: far ridere le persone è la mia battaglia per il rispetto di sé, perché cercare di far commuovere il pubblico è un po’ come invocare la loro pietà”. Il film israeliano è stato premiato anche per i migliori attori.

Il Festival del cinema di Torino costa 2 milioni di euro. Il minimo necessario per realizzare la rassegna ma non per invitare ospiti internazionali che avrebbero il pregio di dare maggiore visibilità a una kermesse cinematografica che continua a puntare lo sguardo su talenti innovativi e sulla sana e libera capacità espressiva dei registi indipendenti. Come le francesi Chloé Mahieu e Lila Pinell che si portano a casa il premio per la miglior sceneggiatura con Kiss and Cry, un atipico racconto di formazione che affronta la questione dei desideri degli adolescenti e della loro sottomissione a quelli più autoritari degli adulti.
Il premio del pubblico va invece a À voix haute/Speak-up, di Stephane De Freitas, una pellicola sul potere della parola come strumento di riscatto. La regista ha detto che con questo film ha voluto dimostrare che nelle periferie ci sono ragazzi disposti a fare uno sforzo reale per acquisire competenze, vivere i loro sogni e avere una voce che conta nella nostra società.

La menzione speciale della giuria a Lorello e Brunello di Jacopo Quadri conferma che il cinema italiano è capace di sfornare titoli che danno prova di coraggio ed audacia autoriale e produttiva. Il film segue per un anno la vita di Lorello e Brunello due agricoltori della Maremma, sopravvissuti alla modernizzazione globale. Per loro il lavoro è una condizione naturale che non si mette in discussione. È il racconto di un assedio a chi rifiuta di formattarsi alla logica dei grandi viticoltori pur di restare i custodi della biodiversità e rivendicare l’importanza dell’agricoltura locale per l’ambiente e per l’uomo.
Ma è un film italiano la grande sorpresa della 35esima edizione del Torino Film Festival. Parliamo di Tito e gli Alieni (vedi video sopra o qui), l’ultimo film di Paola Randi a sette anni di distanza da Into Paradiso. Girato nel deserto di Tabernas ad Almeria, vicino a dove girava i suoi film Sergio Leone, la regia strizza l’occhio al cinema degli alieni degli anni 80 per raccontare in modo intimo e antiretorico il rapporto con il dolore e la perdita. Un territorio dove regna un totale senso di disorientamento, in attesa di segnali dal cielo. Valerio Mastandrea è uno scienziato napoletano vedovo e solitario che lavora vicino all’Area 51, una zona militare dove la leggenda vuole che ci siano gli alieni.

Da quando ha perso la moglie trascorre le giornate sdraiato su un divano nel bel mezzo del deserto. Finché non arriva un messaggio da Napoli, da cui scopre che suo fratello, che è morto, gli affida i propri figli. Tito di 7 anni e Anita di 16 si aspettano di arrivare a Las Vegas pensando di incontrare Lady Gaga e invece si ritrovano in mezzo al nulla. Quello in cui il film riesce alla perfezione è trattare un tema impegnativo come la scomparsa di chi si ama con un approccio così luminoso, divertente e in certi momenti molto commovente.

Se il premio come miglior doc italiano è andato a Diorama di Demetrio Giacomelli, sulla difficile convivenza tra gli uomini e gli animali nelle moderne città urbane, degno di nota è ’78 – Vai piano ma vinci, il film che porta alla luce e ricostruisce i 76 terribili giorni vissuti da Pier Felice Filippi. Campione di rally e figlio di un industriale torinese, nel 1978 a soli 23 anni viene rapito per le mani della ‘ndrangheta. La vicenda, che suscitò parecchio clamore in tutta Italia, si risolse con un inaspettato lieto fine e la fuga del giovane dai rapitori. Dopo quasi quarant’anni, a raccontarla dietro la macchina da presa non è uno sguardo qualunque ma quello di chi, se pur non presente all’epoca, ne è stata irrimediabilmente ed emotivamente coinvolta: la figlia Alice Filippi.
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