All’alba del 24 ottobre 1917 tonnellate di gas tossici piombarono sulle linee difensive dell’esercito italiano, vicino al piccolo paese di Caporetto, oggi in Slovenia. Migliaia di soldati austriaci e tedeschi erano pronti a dare il colpo decisivo all’esercito italiano. Dopo una giornata di combattimenti, fu ordinato alle truppe italiane di ripiegare in gran velocità. Una ritirata disordinata che presto diventa una rotta, la famosa linea del Piave. Quarantamila soldati italiani furono uccisi o feriti e altri 365 mila furono fatti prigionieri. Dalla più grande sconfitta dall’esercito italiano esercito italiano nasce il paradigma tutto italiano della catastrofe che porta al riscatto.

“Quante ne abbiamo viste, da allora, in tutti i campi: militare, civile, economico, sportivo, politico. Come popolo, abbiamo bisogno della sconfitta”, spiega Davide Ferrario, il regista di Cento Anni, il film presentato al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile. Dopo Piazza Garibaldi e La zuppa del demonio, il film completa la trilogia di Ferrario sulla storia italiana.
Una ricognizione in quattro episodi su questi cent’anni di storia, cercando di evidenziare dei nessi e delle costanti di comportamento Nel primo capitolo la storia della Caporetto originaria viene messa in corto circuito con i luoghi delle Caporetto del Novecento della storia italiana, come il Vajont e la Risiera di San Sabba. Nel secondo capitolo va in scena la Resistenza, attraverso la storia famigliare del chitarrista Massimo Zamboni, un nonno fascista ucciso da due partigiani. Le speranze diverse e i conflitti tra chi è rimasto. Nel terzo capitolo la strage di Piazza della Loggia a Brescia: “I morti servono a capire le ragioni per cui sono morti”, dice Manlio Milani, presidente dell’Associazione Familiari Vittime della Strage. Fino alla Caporetto demografica di oggi. Il viaggio del poeta ed attivista Franco Arminio in giro per le campagne dell’Irpinia d’Oriente e la Basilicata ci mostra un fenomeno che sembra quasi irreversibile: lo spopolamento dell’Italia, il Sud in particolare. Un territorio che è dimenticato da tutti, anche dall’immaginario comune secondo cui il Meridione oggi è solo Gomorra.
“Ogni storia è narrata con uno stile radicalmente diverso – dice ancora Ferrario, perché oggi il documentario non può essere solo il suo contenuto, ma deve essere anche una riflessione sul cinema e sui modi della messa in scena.
È evidente che l’intenzione del regista è narrare gli aspetti di disastro civile e sociale della sconfitta, non tanto quelli militari. “Ecco perciò la storia dei profughi interni; delle donne violentate e dei figli che nascono dopo la guerra, come in Bosnia; l’incredibile e taciutissima vicenda dei prigionieri italiani ripudiati dagli stessi familiari. Come spesso accade Stato e Popolo sono entità dissociate, nella storia italiana”.
Tra le tragedie che hanno segnato la storia dell’Italia, Ferrario ha scelto la strage di Piazza della Loggia a Brescia affidati ai ricordi di chi c’era e a chi ha perso qualcuno, ma anche ai giovani che da quei caduti discendono e a chi oggi, pur arrivando da un altro paese, si sente italiano. “I bresciani sono stati in grado di elaborare il dolore in coscienza comunitaria e di passarla alle generazioni giovani. Personalmente, mi sono commosso quando uno dei giovani pakistani che abbiamo intervistato ha rivendicato Piazza della Loggia come parte della sua storia personale. In questo senso, Brescia è diversa da altri post-attentati, dove nelle piazze ancora oggi si scende in piazza divisi e infuriati.

Ma perché noi italiani abbiamo bisogno di una Caporetto? “C’è una tendenza del popolo italiano a produrre catastrofi. Siamo sempre di fronte ad una Caporetto. Ad esempio la mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali che si svolgeranno in Russia è stata definita la Caporetto del calcio. Eppure si ha la sensazione che il meglio del carattere nazionale venga fuori dopo una tragedia. È nell’emergenza che noi italiani troviamo la forza per elaborare la sconfitta e reagire.
Un importante spunto di partenza per il film è stato appunto La tragedia necessaria, il bel libro di Mario Isnenghi. A cominciare dall’idea, citata nel film, che impariamo su noi stessi molto di più dalla sconfitta che dalla vittori. Insomma, il film era stato pensato come la ricerca sulla persistenza di una “sindrome Caporetto” in tutta la storia italiana”.