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September 10, 2017
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Venezia 74: tra famiglia, intolleranza per il diverso e un messaggio a Trump

Si è conclusa la 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, con la vittoria di "The Shape of Water" di Guillermo Del Toro

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Venezia 74: tra famiglia, intolleranza per il diverso e un messaggio a Trump

Guillermo Del Toro, vincitore del Leone d'Oro alla 74esima Mostra di Venezia

Time: 4 mins read

Alla fine, come da copione, la cosa meno interessante della 74a edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia è stata il palmarès. La giuria presieduta da Anette Bening ignora i titoli più coraggiosi, interessanti e innovativi e premia la favola di Guillermo Del Toro, The Shape of Water, che – va detto – non è il migliore in campo ma è comunque un buon film, solido e suggestivo, certo senza la forza seduttiva di Maktoub di Kechiche o l’apocalittico nichilismo di First Reformed di Schrader. Il doppio premio a Jusqu’à la garde dell’esordiente Xavier Legrand (miglior opera prima e Leone d’argento per la migliore regia) sembra francamente incomprensibile, così come eccessivo pare anche il “secondo premio” (il Gran Premio della giuria) a Foxtrot di Samuel Maoz, che sette anni dopo Lebanon sale ancora sul podio del Festival di Venezia.

Poco male, comunque. Albo d’oro e logiche della giuria appartengono sempre alla sfera dell’imponderabile, soprattutto in un concorso di alto livello com’è stato quello di quest’anno. Più interessante, invece, tracciare un bilancio di quanto visto al festival a livello di temi e spunti di riflessione. Se il cinema è una finestra spalancata sul mondo e un festival un termometro in grado di misurarne le diverse temperature, quest’edizione della Mostra è sembrata raccogliere film che insistono con forza su alcuni temi ben precisi.
Proviamo a seguire qualche traccia.

The state of the Union

Three Billboards Outside Ebbing, Missouri
Three Billboards Outside Ebbing, Missouri

Il cinema americano si presenta a Venezia come ogni anno in pattuglia numerosa, ma c’è qualcosa di diverso: è iniziata l’era Trump e i cineasti a che scelgono gli Stati Uniti come ambiente delle loro storie inevitabilmente si confrontano con questo tetro scenario provando anche a riflettere sul perché di un evento storico che solo fino a un anno fa sembrava da più parti imprevedibile.
Con un po’ di ritardo, alcuni film provano a sottolineare ciò che prima era molti analisti e intellettuali avevano sottovalutato, la pancia della provincia: lo fa Suburbicon di George Clooney, scritto dai fratelli Coen, che nel luogo simbolico della cittadina che dà il titolo al film – summa delle zone residenziali suburbane statunitensi – racconta un’utopia wasp dai contorni inquietanti, con una comunità di bianchi razzisti che condanna degli afroamericani appena giunti nella cittadina ignorando ciò che avviene all’interno di una delle loro famigliole apparentemente perfette; della provincia si occupa anche Lean on Pete di Andrew High, racconto di formazione “al contrario”, nel senso che il giovane protagonista Charley (meritatamente premiato Charley Plummer con il premio Mastroianni all’attore emergente) viaggia non per giungere all’età adulta bensì per recuperare la sua adolescenza. Inospitale, paranoico, isterico, il centro degli States appare come un luogo selvaggio e pericoloso.

Tuttavia, le opere più convincenti nel riflettere sullo zoccolo duro dell’elettorato trumpista sono state First Reformed di Paul Schrader, ambientata nell’upstate New York, e Three Billboards Outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, nel cuore del Midwest, il primo a secco di riconoscimenti, il secondo premiato per la miglior sceneggiatura.
In entrambi i casi, al di là della paranoia e delle contraddizioni, i due film riescono a cogliere il disagio di intere zone che sembrano essere state dimenticate per anni dalle istituzioni. McDonagh, con uno humour nero irresistibile problematizza il machismo americano, il rapporto tra il singolo e le istituzioni e la tendenza dell’America conservatrice a “rimuovere” ciò che è scomodo (e ad esplodere quando il rimosso torna, in questo caso sotto la forma dei tre cartelloni che la madre arrabbiata fa installare per ricordare a tutti la morte della figlia, ancora senza un colpevole).
Schrader, invece, racconta il tormento interiore di un prete schiacciato dal senso di colpa e in cerca di espiazione e martirio, che si muove in un’America cupa in cui le grandi corporation da un lato finanziano la Chiesa per tapparsi la coscienza e dall’altro distruggono con disinvoltura “il creato” di cui parlano i sermoni della domenica.

Padri assenti

Tanti i film in concorso ( e non solo in concorso) che raccontano della crisi dell’istituzione sociale della famiglia. Guardando da vicino i tratti comuni di tale rappresentazione, notiamo come l’elemento ricorrente di questa crisi si concentri sulla crisi della figura paterna, spesso assente, altre volte semplicemente incapace di ricoprire la propria funzione simbolica. Di nuovo, in First Reformed abbiamo un padre divorato dal senso di colpa per aver spinto verso la morte il figlio; attorno al padre morente si radunano i personaggi di La Villa di Guediguian, costretti a fare i conti con le ferite e le macerie che l’ingombrante figura paterna ha lasciato nelle loro vite.

L’altro inaccettabile

Infine, il terzo tema ricorrente dei film transitati dal Lido è stato indubbiamente l’inconciliabilità dell’altro, l’ostilità verso ciò che è alienus, diverso. The Shape of Water di Del Toro, in tal senso, in modo forse un po’ semplicistico, declina questo tema in forma di fiaba, ricorrendo agli anni ’50 per alludere all’oggi e raccontare un America machista ma impaurita dal “diverso”.
Sorvolando sul narcisismo del documentario ai Ai Weiwei sui flussi migratori, un altro bel film che ribadisce la natura fondamentalmente razzista della civiltà occidentale è Sweet Country di Warwick Thornton, che nel Nord dell’Australia, ad Alice Springs, luogo in cui è nato e cresciuto, racconta una storia di razzismo nei confronti degli aborigeni, trattati come schiavi negli anni ’20 dal famigerato Native Affairs Act. Un western di frontiera che ribadisce la difficoltà della legge e dell’istituzione di arginare le pulsioni razziste insite nel senso di superiorità dell’uomo bianco.

Mektoub, My Love: canto uno di Abdelatif Kechiche
Mektoub, My Love: canto uno di Abdelatif Kechiche

Al di là di questi temi, si colloca forse il vero capolavoro di questa Mostra, cioè Mektoub, My Love: canto uno di Abdelatif Kechiche, una commovente e travolgente immersione in un’estate di vita e sensualità di un giovane franco-tunisino nella località di mare del sud della Francia dove è cresciuto. Un film sull’adolescenza, sulla scoperta del desiderio e sulla difficoltà della sua legittimazione, sulla costruzione del soggetto, che commuove e inebria con una forza vitale incredibile e conferma che la grandezza e l’unicità del regista tunisino nel panorama del cinema mondiale.

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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