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September 1, 2017
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A Venezia il cinema racconta l’età buia dell’America di Trump

Venezia 74 - 1° giorno: i primi tre film in concorso sono tutti americani e rispecchiano i mala tempora che attraversa la società statunitense

Simone SpoladoribySimone Spoladori
Matt Damon e Alexander Payne sul set di Downsizing

Matt Damon e Alexander Payne sul set di Downsizing

Time: 3 mins read

L’inizio del concorso di Venezia 74 è tutto made in USA: uno dopo l’altro, sono sfilati sul red carpet i cast di Downsizing di Alexander Payne, di First Reformed di Paul Schrader e di The Shape of Water di Guillermo Del Toro.
Tre film molto diversi tra loro, che hanno però in comune la volontà di ritrarre in modo critico e problematico l’attuale visione del mondo (o meglio, l’assenza di un’autentica visione del mondo) che caratterizza gli Stati Uniti dell’era Trump.

Downsizing, dell’umanista Alexander Payne, inizia alla grande con una trovata interessante: una nuova tecnologia “miniaturizza” gli umani, rendendo quindi di colpo più grande il pianeta e più abbondanti le risorse, quelle risorse di cui l’attuale amministrazione statunitense ignora la pericolosa estinzione. Nel suo “elogio” dell’aurea mediocritas, che si incarna nell’everyman Matt Damon, Payne però si perde per strada e alla fine scivola in un filantropismo un po’ sterile che annacqua il discorso del suo film.

Tutt’altro spessore, invece, hanno i film di Schrader e di Del Toro.

First Reformed, di Paul Schrader

Venezia 74, concorso - First Reformed, di Paul Schrader
Venezia 74, concorso – First Reformed, di Paul Schrader

Bresson, Bergman e tutte le ossessioni della golden age del cinema di Schrader, il perdono, la colpa, l’espiazione: il grande cineasta americano, classe 1946, confeziona un’opera nerissima e dolente, degna dei suoi lavori migliori (Taxi Driver e Toro scatenato com sceneggiatore, American Gigolo, Hardcore e Mishima come regista) e capace di intercettare lo spirito dei tempi.

La First Reformed è una piccola chiesa, perennemente vuota di fedeli e visitata da qualche turista poiché due secoli prima fu riparo per gli schiavi in fuga verso il Canada. Qui, il reverendo Toller, ex cappellano militare, cerca di alleviare il suo dolore: suo figlio, che lui ha spinto a entrare nelle forze armate, è morto in guerra. Il suo monologo interiore e le sue prediche senza destinatari incrociano però la sofferenza di Mary e di suo marito Michael, un attivista radicale ossessionato dalla convinzione che il mondo, nll’indiffernza generale,  stia andando verso la distruzione. Quando il giovane ambientalista si suicida, il reverendo si avvicina a Mary e si convince che anche la società e la chiesa americane sono stritolate dagli interessi delle grandi corporation. L’unica strada per gridare rabbia e dolore sembra il martirio.

Schrader racconta in 4:3, schiaccia tutto in un fotogramma molto stretto e adotta un rigore geometrico soffocante e davvero “bressoniano”. I colori sono spenti, con l’eccezione del rosso-sangue, mentre il contrasto tra bianco e nero molto accentuato, quasi a voler sottolineare la forza del tormento emotivo che agita il protagonista. La voce fuori campo di padre Toller, ottimamente interpretato da Ethan Hawke, ne scandisce il flusso di coscienza e l’evoluzione psicologica. Come Yukio Mishima o Travis Bickle, è sospeso tra espiazione e sacrificio,

The Shape of Water, di Guillermo Del Toro

Venezia 74, concorso - The Shape of Water, di Guillermo Del Toro
Venezia 74, concorso – The Shape of Water, di Guillermo Del Toro

Guillermo Del Toro si sta ormai “burtonizzando”, nel senso buono delle termine. Mentre il creatore di Edward mani di forbice sembra aver smarrito il suo tocco weird e unico, il regista messicano riesce a raccontare avvincenti storie di outsider in cerca di riscatto usando il registro della fiaba nera e, proprio come Burton, sembra fare – e bene – sempre lo stesso film. Da Il Labirinto del fauno a Crimson Peak, l’universo narrativo di Del Toro si fa via via sempre più personale e riconoscibile.

Proprio come ne Il labirinto del fauno, il regista – autore della sceneggiatura insieme a Vanessa Taylor – mescola fantasy e storia. Siamo nell’America del 1962, quella della crisi missilistica di Cuba, agli sgoccioli del sogno di kennediano di Camelot: tra servizi segreti e politici, l’America si fa demenzialmente machista, intollerante, ottusa e chiusa verso l’altro, proprio come quella “great again” di oggi. Ogni rimando all’attuale inquilino della Casa Bianca è puramente voluto, in questa versione sofisticata de La bella e la bestia. Solo che qui la bella è muta ed emarginata, intrappolata in una vita semplice da donna delle pulizie di un centro aerospaziale e circondata da amici outsider come lei. La bestia, invece, è un bizzarro uomo-pesce, che il cattivo Michael Shannon ha trovato in un fiume sudamericano e che il governo vorrebbe mandare sulla luna. Scatta l’amore interspecie, che è – e questa è una novità dirompente – anche carnale: il sesso, anzi, il desiderio e la sua legittimazione sono il motore di questa splendida fiaba, che mescola il piacere incantato del racconto a un magistrale uso “politico” del fantasy. Un buon inizio, indubbiamente, per questa edizione della kermesse veneziana.

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Simone Spoladori

Simone Spoladori

Nato a Milano, laureato in lettere e laureando in psicologia, di segno pesci ma non praticante, soffro di inveterato horror vacui. Autore per radio e TV, critico cinematografico, insegnante, direttore di un'agenzia creativa di Milano. Oltre ai film, amo i libri e credo che la letteratura americana del '900 una delle prime tre cose per cui valga la pena vivere. Meglio omettere le altre due. Drogato di serie TV, vorrei assomigliare a Don Draper, a Walter White o a Jimmy McNulty. Quando trovo il tempo, mi diverte a scalare montagne, fare foto, giocare a tennis, cucinare e soprattutto mangiare ciò che cucino. Sono malato di calcio, tifo Manchester United e Milan, ma la mia vera guida spirituale è Roger Federer.

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