Al festival di Cannes, solo qualche mese fa, il regista cileno Pablo Larrain aveva presentato, alla Quinzaine des Réalisateurs, il suo anomalo e bellissimo biopic Neruda, un puzzle perfetto che sottolineava con forza magistrale la sottomissione della realtà alla parola. Il racconto dei fatti, in altre parole, “crea” i fatti stessi invece di esserne semplicemente un’emanazione, fatti che sono, quindi, un prodotto della parola e non il semplice oggetto di essa.
Jackie, presentato a Venezia 73, è un altro biopic (per chi scrive, per ora, il film più bello del concorso veneziano) che completa, estende e rafforza lo studio di Pablo Larrain sul rapporto tra parola e reale, legandolo in modo ancora più radicale che in Neruda ad un discorso sulla Storia. L’assunto di fondo che regge la struttura di Jackie è che il “racconto della Storia” e il modo in cui questa viene tramandata e ritualizzata siano più determinanti di quanto è realmente accaduto. La parola, quindi, per quanto polisemica, possiede il potere e la forza di “fissare” i fatti.
Con Jackie, che speriamo sia il film della definitiva consacrazione di Larrain, il regista cileno racconta le ore e i giorni successivi al tragico 22 Novembre 1963, il giorno in cui il più amato e ambiguo presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, viene assassinato. Lo sguardo di Larrain e dello sceneggiatore Noah Oppenheim si posa però su Jackie Kennedy (straordinaria la performance della Portman, su cui torneremo dopo), moglie del presidente, first lady amata e donna dai diversi volti: amante dell’alta moda e del glamour, raffinata e disinvolta protagonista di situazioni pubbliche, apparentemente spontanea ma in realtà sempre studiata ad arte in ogni gesto o affermazione, silenziosa testimone di intrighi e tradimenti e lei stessa custode di scottanti scheletri nell’armadio. Il film costruisce questo ritratto attraverso un lungo ricordo di quei giorni tragici che Jacqueline consegna ad un giornalista (Billy Crudup) cui ha concesso un’intervista in cui descrive il suo stato d’animo e la sua visione degli eventi.
La grandezza del film di Larrain sta proprio in questa frattura, continuamente sottolineata, tra i fatti e la loro narrazione. La parola di Jackie e le immagini di Larrain che la supportano non descrivono semplicemente la realtà, ma la “scavano”, vi aprono un buco in cui la dimensione del reale viene ridefinita e ricreata. Così la conversazione tra la Kennedy e il giornalista procede tra affermazioni e smentite, confessioni e ritrattazioni, bugie scoperte e verità ambigue.
Nei flashback vediamo spesso la donna aggirarsi per quei corridoi della Casa Bianca che lei stava audacemente riarredando, lunghi, intricati, labirintici, come fossero il correlativo oggettivo di un’inestricabilità di piani storici e immaginari tale da rendere inafferrabile la verità. Anche il racconto procede su più piani e su più livelli, che si intrecciano e si incastrano, come in un puzzle. In uno di questi, Jackie dialoga con un sacerdote (un fantastico John Hurt). Questo afferma: “Arriva un momento nella nostra ricerca della verità in cui capiamo che non ci sono più risposte. A quel punto, o ti uccidi o semplicemente smetti di cercare”.
In effetti, la ricerca di Larrain e Oppenheim non è certo diretta verso “la verità”: rispetto al più celebre omicidio politico del XX secolo, in questo film non c’è il desiderio di raccontare come siano andati realmente i fatti ma piuttosto di afferrare il meccanismo che determina la costruzione della loro narrazione che li fissa per sempre nella Storia. Il terreno su cui si gioca questa partita è, ovviamente, il tessuto emotivo di Jackie Kennedy, il suo controverso, silenzioso, sofferto rapporto con la verità e con il dubbio.
Ben lontano dall’agiografia, il film di Larrain (anche grazie alla sublime performance della Portman, che spesso in primissimo piano riesce a sottolineare con infinite sfumature del viso la postura costruita della Kennedy) racconta il groviglio di emozioni e tensioni che scuotono la first lady all’indomani dell’omicidio di Dallas. Nel suo tailleur rosa di Chanel, che creò una tendenza e una moda negli States, circondata dai torbidi segreti del palazzo e dai suoi cinici custodi, la Jackie di Larrain è una figura complessa, infinitamente ricca di sfumature, un personaggio su cui il film apre infinite domande sospese e intelligentemente suggerisce ben poche risposte.
Il film si apre subito su di lei, già in primo piano, in lacrime, filtrata dalla grana anni ’50 con cui il bravissimo Stéphane Fontaine fotografa l’opera. Quest’immagine potenzialmente stereotipata viene subito ‘corrosa” dalla dissonante e ambigua partitura musicale di Mica Levi, secondo un procedimento di cui il film si serve spesso: costruire un’unità narrativa che sembra inserirsi nella tradizione del biopic per poi smontarla improvvisamente. Coerentemente con questa volontà di sottolineare l’inconsistenza di ciò che separa la finzione dalla realtà, Larrain gioca con le immagini di repertorio, scegliendo di ricrearle facendo un perfetto calco di servizi televisivi e girato d’archivio, mettendo in crisi anche su questo piano la separazione tra racconto e fatto.
E tra racconto e fatto, quello che conta, alla fine, è – come dice Jackie – che il pubblico abbia la sua favola, che l’immaginario di quei due anni e mezzo di JFK alla Casa Bianca sia quello di una grande corte aperta al suo popolo, per un breve ma luminoso momento. Proprio come dice il musical preferito da Jackie e suo marito, su cui si chiude magistralmente lo straordinario approdo di Pablo Larrain a Hollywood: “Don’t let it be forgot, that once there was a spot, for one brief shining moment that was known as Camelot”. There’ll never be another Camelot again.
Guarda un segmento del film Jackie: