Cala il sipario su Cannes 2016 e in attesa della premiazione possiamo tirare le somme. Come già affermato nella prima parte del nostro report dalla Croisette, si è trattato senza dubbio di una delle migliori edizioni degli ultimi anni. Un programma sulla carta mostruoso si è rivelato in effetti tale, così ricco e di livello talmente alto da rendere difficile se non impossibile seguire il festival senza avere l’impressione di perdersi dei pezzi. L’unica sezione un po’ più debole rispetto alle ultime edizioni è stata Un Certain Regard, in cui abbiamo visto anche l’unico italiano in concorso, il mediocre Pericle il nero di Stefano Mordini, con una buona interpretazione di Riccardo Scamarcio. Il concorso è stato invece una bomba ed è andato in crescendo. Almeno cinque colpi di fulmine ci hanno folgorato nella seconda parte del festival.
Smarimmenti rumeni
Il primo è stato Bacalaureat di Cristian Mungiu, uno dei più bravi artisti della Nouvelle Vague del cinema rumeno, che a Cannes ha già trionfato nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Il tema qui è quello dello smarrimento della generazione “cresciuta” sotto Ceausescu e che ora si trova a dover guidare le nuove generazioni verso il futuro. Non hanno padri credibili e radici forti a cui fare riferimento, hanno un desiderio fortissimo di voltare pagina e guardare al futuro con una moralità nuova, hanno metabolizzato però modalità comportamentali, diciamo anche delle modalità di sopravvivenza, che spesso configgono con queste nuove coordinate morali. È il caso di Marius (magnificamente interpretato da Rares Andrici), protagonista di Bacalaureat, medico che vive nei sobborghi di Cluji, in Transilvania, e che ha impostato l’educazione della figlia Eliza sulla base di saldi e nobili principi. Il compromesso cui Marius dovrà cedere riguarda proprio Eliza: mancano pochi esami e poi, se la media sarà sempre alta, la ragazza potrà andare a Londra a studiare, realizzando il sogno (del padre). Un tentativo di stupro, però, rischia di far saltare il banco. Marius sembra più preoccupato dall’eventualità nefasta che il progetto (ripetiamo, il suo, proiettato su Eliza) fallisca piuttosto che della salute della ragazza. Così, per far passare gli esami alla figlia, l’uomo tenta di sondare la disponibilità di amici e di amici di amici. Il meccanismo che si innesca, però, è destinato a ritorcersi contro di lui.
La soffocante famiglia di Dolan
Il secondo è stato il ritorno di Xavier Dolan. Sono passati solo due anni ma sembra un’eternità: nel 2014 il “mezzo” premio della giuria per Mommy (in illustre e simbolica coabitazione con Jean-Luc Godard) metteva sotto i riflettori dei media internazionali un regista ragazzino, già arrivato al suo quinto film, dotato di un talento esplosivo e talvolta difficile da tenere sotto controllo. Oggi Xavier Dolan porta sulla Croisette quello che ha definito il suo film “più maturo”, il primo “da uomo”: Juste la Fin du Monde, tratto dall’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce (autore morto di AIDS nel 1995), il film che conferma il ventottenne regista canadese come uno dei nomi più interessanti del cinema d’autore e che potrebbe decretarne la definitiva consacrazione.
Protagonista è Louis, interpretato da un bravissimo Gaspard Ulliel (trovate il modo di vedere Saint Laurent di Bertrand Bonello, inedito in Italia, se volete conoscere meglio questo magnifico attore), dodici anni prima si era allontanato dalla famiglia, diretto verso “la città” e verso il successo. Ora è uno scrittore affermato e torna a casa per ripresentarsi ai suoi familiari nel modo più complesso: deve annunciare che sta per morire. In realtà, è come se Louis “ritornasse” dal lutto che la sua famiglia sta elaborando per ratificare la sua assenza: il ragazzo, infatti, per la sua famiglia che non lo vede più da così lungo tempo, è già come se fosse morto, per questo, trovare il modo e soprattutto il tempo per permettere alla parola di uscire è un’operazione complicatissima. Se la peculiarità di Mommy era quella di essere girato in un particolare formato 1:1 (quadrato) che soffocava i personaggi, qui siamo per certi versi all’opposto: il fotogramma è sufficientemente ampio, ma i personaggi della famiglia (c’è sempre una famiglia disfunzionale al centro della ricerca di Dolan) vengono sempre ritratti attraverso primissimi piani ravvicinati, che “riempiono” totalmente l’inquadratura. L’effetto è parimenti claustrofobico, ma il meccanismo è diverso: non è il reale a soffocare l’immaginario dei personaggi, come in Mommy, al contrario è il modo che questi personaggi hanno di relazionarsi al mondo ad essere soffocante.
Bellezza senza trama
Il terzo colpo di fulmine è stato il controverso The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, forse il testo più indecifrabile del festival. Un thriller/horror, con un finale splatter, che non si fa mancare niente, necrofilia lesbo e cannibalismo inclusi, ma che rinuncia deliberatamente ad una trama. Non lo fa da subito: inizia raccontando in modo ingannevolmente promettente la storia di una sedicenne (Elle Fanning) che arriva a Los Angeles per sfondare nel cinema e nella moda. Non è solo bella, ha una purezza, una carica seduttiva assoluta e rarefatta e nessuno le resiste. Fagocita e viene fagocitata dal successo e dopo avere raccontato l’inizio della sua trasformazione il film stesso cambia pelle: sospeso tra l’horror italiano di Bava e Argento e il cinema di David Lynch, senza però ammiccare né all’uno né all’altro, la nuova forma film di Refn procede per immagini, per suggestioni, per provocazioni grafiche. Il risultato è scomposto, irregolare e a tratti irritante, ma nessuno aveva mai raccontato con una tale efficacia epidermica la voracità del successo, che divora, digerisce e vomita i volti e i corpi che vi aspirano.
Nerudiano Larrain
Abbiamo poi amato moltissimo Neruda di Pablo Larrain, nella Quinzaine des Realizateurs. Un finto biopic, un film “nerudiano” più che un film su Neruda, come dice lo stesso, grandissimo regista cileno nel pressbook del film, una di quelle storie poliziesche che il poeta avrebbe desiderato leggere. E infatti, mescolando realtà e finzione, poesie e poesia, giocando con la parola e con il linguaggio, Larrain racconta la caccia del poliziotto loser Oscar Peluchonneau (un grande Gael Garcia Bernal) al senatore comunista Pablo Neruda (Luis Gnecco), che gioca con il suo inseguitore, lo attira, lo inganna, si traveste sotto i suoi occhi. Di un’eleganza formale impressionante, il nuovo film di Larrain è la consacrazione assoluta di uno dei cineasti più importanti tra le nuove generazioni.
Borghesia fatta a pezzi
Infine, ultima folgorazione, Elle di Paul Verhoeven. Il regista olandese torna in concorso a Cannes ventiquattro anni dopo Basic Instinct e lo fa con un film ironico, sospeso tra il thriller la commedia, un adattamento cinematografico del romanzo del 2012 Oh… di Philippe Djian. Alla base, la ricerca che Michèle (magnifica Isabelle Huppert) fa dell’uomo che l’ha stuprata. Intorno, colpi durissimi, con massicce dosi di sarcasmo, all’ipocrita borghesia francese, fatta a pezzi e dilaniata con una ferocia disarmante.
I buoni e i brutti
Intorno a questi cinque lampi, tanti buoni film: Forushande dell’iraniano Asghar Farhadi, da cui ci si attendeva probabilmente un altro capolavoro dopo Una separazione, e che invece è “solo” un buon film; Aquarius, di Kleber Mendonça Filho, un vibrante dramma brasiliano sul dilagare della speculazione edilizia; Ma’ Rosa del filippino Brillante Mendoza, un noir che denuncia con uno stile di crudo realismo la corruzione della società filippina.
C’è stato anche qualche tonfo, uno solo veramente clamoroso, quello di Sean Penn, che ha firmato il film più brutto del concorso, The Last Face, accolto da recensioni spietate e da fischi copiosi. Un film in effetti indifendibile, che racconta il dramma umanitario, il caos e l’orrore delle zone più tormentate dell’Africa mischiandole con una storia d’amore enfatica e noiosa tra due medici, interpretati da Javier Bardem e Charlize Theron. Da dimenticare.
Gli italiani
Due parole sugli italiani. In concorso non ce n’erano e di Pericle il nero (Un certain regard) abbiamo già accennato. Il meglio è stato nella Quinzaine: La pazza gioia di Virzì, Fai bei sogni di Bellocchio e il sorprendente Fiore di Giovannesi sono tre ottimi film che sono stati ben accolti dal pubblico e dalla critica, in una sezione quest’anno davvero ricchissima del festival di Cannes. Bellocchio adatta il romanzo omonimo di Gramellini o (e per fortuna(\) diciamo che prende solo spunto dal testo del giornalista piemontese per fare un film personalissimo e psicoanalitico. Virzì gira una versione stralunata di Thelma & Louise, un film leggero, nel senso migliore di questa parola, che scorre e vola via in modo straordinariamente piacevole. Giovannesi si conferma un talento da seguire, girando una storia d’amore carcerario forte, intensa, mai banale, di una misura esemplare.
Sono stati dieci giorni di grandissimo cinema. Ora, la parola passa a George Miller e la sua giuria, per un verdetto che appare impronosticabile.