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Quel villaggio-lager nazista in Cile: chi sapeva e non fece nulla?

“Colonia Dignidad”, cinema di denuncia che mostra quanto il “male” sia non solo “banale”, ma anche diffuso

Valter VecelliobyValter Vecellio
colonia-dignidad

Emma Watson e Daniel Bruhl in una scena di "Colonia Dignidad"

Time: 4 mins read

Avrà pure ragione certa critica, che occupandosi di “Colonia Dignidad” del regista Florian Gallenberger (con Emma Watson, Daniel Bruhl, Michael Nyqvist), nicchia, individua sbavature, non nasconde perplessità a livello stilistico e di contenuto. Saranno fondate, le obiezioni, i “ma” e i “però”; per quanto tuttavia possano essere, li si può con tranquilla coscienza ignorare.

“Colonia Dignidad”, non è un “incubo” nato da una fantasia. La storia è reale; è la storia di un piccolo, dimenticato villaggio cileno a 350 chilometri dalla capitale Santiago, fondato nel 1961, ma che solo dopo il golpe del generale Augusto Pinochet e la violenta defenestrazione del legittimo presidente Salvador Allende, diventa “operativo”. In quei drammatici giorni una coppia di tedeschi (lui, Daniel, fotografo; lei, Lena, assistente di volo della Lufthansa), si trovano bloccati “in sosta” a Santiago; sono giorni convulsi, dove anche una sola parola, un gesto equivale a una condanna a morte. Daniel viene arrestato, Lena rilasciata. Qui comincia l’incubo. Daniel è rinchiuso alla Colonia Dignidad, quel villaggio dimenticato, peggio: ignorato dal mondo. Un villaggio che ha una sua storia specifica: esiste per la volontà di un ex medico tedesco delle SS, Paul Schafer, che ha raccolto attorno a sé un nutrito gruppo di fanatici seguaci nazisti. A “Colonia Dignidad” si entra, ma raramente si può uscire. Lena che vuole tirar fuori da quell’inferno Daniel, si “arruola” nella setta che gestisce Colonia Dignidad. Il resto lo si può immaginare.

Secondo Simon Wiesenthal, il famoso cacciatore di criminali nazisti, a Colonia Dignidad, per un certo periodo, ha vissuto anche il famigerato Joseph Mengele. Per quarant’anni, vita sonnolenta, schermata da un’apparente armonia, un misto tra il villaggio modello e la missione, una comunità come quelle sognate a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento da utopisti e sognatori di una vita dove tutto è bello, buono e giusto, sopiti ingordigie ed egoismi. L’incubo, però è ben ribollente sotto la fragile crosta della superficie. Dopo il golpe di Pinochet ecco che Colonia Dignidad si trasforma da apparente paradiso in sostanziale inferno. Diventa la prigione perfetta dove relegare i dissidenti politici, gli avversari del dittatore; in quella piccola autonoma repubblica chi ha potere di vita e di morte è Schäfer, che prosegue come nulla fosse il suo mestiere di boia.

In circa quarant’anni sono ben pochi i dissidenti che riescono a evadere da Colonia Dignidad: i più sono nuovamente catturati, riportati in quella città-lager, e chissà: con la compiacente e compiaciuta complicità dell’ambasciata tedesca.

Dell’esistenza (e degli orrori) di Colonia Dignidad si comincia a sapere grazie alle denunce di Amnesty International e a qualche articolo di giornale, come quello uscito sul Washington Post nel 1980; in molti paesi dell’Occidente la notizia di questa città-lager, indigna, sconcerta; e tuttavia non accade nulla. Bisogna attendere 1990, quando Pinochet lascia il potere a furor di popolo. Paul Schäfer paga per i suoi crimini? Lui, per tempo, fugge in Argentina; solo nel 2004 viene arrestato, condannato a 33 anni di carcere, nulla rispetto alle migliaia di capi d’accusa, di cui è ritenuto responsabile. Muore in prigione a Santiago nel 2010.

I complici neppure questo. Li lasciano, tranquilli e impuniti nelle loro case, nelle loro  proprietà; il villaggio viene ribattezzato Villa Baviera; oggi è un’amena località, si coltiva grano, si allevano vacche, arrivano i turisti alla caccia di ninnoli e con le immancabili diavolerie per ogni tipo di selfie.

“La prima volta che ho sentito parlare di questo luogo spaventoso”, racconta   Gallenberger, “è stato durante le scuole elementari: la maestra ci mostra un documentario. Non sapevo neanche dove fosse il Cile, ma ricordo di essere rimasto choccato. Poi ho letto un articolo che ha risvegliato in me la rabbia provata da bambino, ho letto l’autobiografia di un ‘ex colono’ e ho pensato che fosse una storia troppo importante per essere dimenticata”. Gallenberger racconta di aver viaggiato in lungo e in largo, in Cile, per studiare la storia di quel luogo e raccogliere le testimonianze dei membri della comunità. In qualche modo è riuscito a guadagnare la loro fiducia e farsi raccontare molti dei segreti della setta. I due personaggi principali sono evidentemente una finzione; tutto il resto è storicamente accurato, compresi certi dialoghi dello stesso Schäfer”.

Solo dieci anni fa alcuni membri della colonia hanno chiesto ufficialmente scusa per le violenze e le torture, attraverso una lettera pubblicata sul giornale cileno El Mercurio; solo recentemente la cancelliera tedesca Angela Merkel, pressata dell’opinione pubblica choccata dal film di Gallenberger, ha annunciato che desecreterà, con dieci anni di anticipo, i documenti relativi al villaggio degli orrori.

“Colonia Dignidad” è l’omaggio a centinaia, migliaia di persone vittime di una banda di criminali nazisti, che però ha potuto impunemente agire perché chi poteva non ha mosso un dito per impedire che facessero quel che hanno fatto. “Colonia Dignidad” entra a pieno titolo in quel filone di cinematografia “civile” che fa riflettere, denuncia e mostra quanto il “male” sia non solo “banale”, ma anche diffuso. Un continuo orrore con cui ogni giorno siamo chiamati a fare i conti.   

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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