La stagione dei grandi festival europei inizia nel migliore dei modi per l’Italia: l’edizione numero sessantasei del Festival del cinema di Berlino va infatti in archivio con il trionfo di Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che affianca così il prestigioso Orso d’oro al Leone d’oro vinto a Venezia nel 2013 con Sacro Gra.
Vittoria di straordinaria importanza, che va ben oltre il significato cinematografico e artistico e assume una connotazione politica e morale molto marcata. Proprio in Germania, paese fondamentale nello scacchiere della comunità europea, diviso dalle recenti e tentennanti scelte di Angela Merkel in merito all’accoglienza dei profughi e incendiato dagli incresciosi fatti di Colonia a Capodanno, viene incoronato un film che mostra in modo impietoso e provocatorio le proporzioni inaudite del dramma che si sta consumando nel Mediterraneo. Il film di Rosi vince meritatamente e insieme a lui il coraggioso direttore Dieter Kosslich, che ha voluto fortemente in concorso un’opera che sbatte in faccia agli spettatori, amplificandola con la potenza del grande schermo, la morte e la sofferenza, vere, tragiche, inaccettabili. Un film che mostra ciò che ci sforziamo di non vedere, un cine-pugno che riannoda i termini e i significati di tanti discorsi sull’immigrazione e che restituisce alle parole che ad esso si riferiscono il peso e la proporzione che devono avere.
In un festival complessivamente molto politico, Meryl Streep e la sua giuria hanno compiuto scelte (largamente condivisibili) che si sono in qualche modo allineate a questa tendenza. Così, il Gran premio della giuria è stato assegnato (ed è stata anche l’unica parziale sorpresa) a Smrt u Sarajevu (Death in Sarajevo) di Danis Tanović, un buon film che a colpi di metafore attacca in modo caustico l’inettitudine della Comunità europea davanti alle questioni più spinose della storia recente, in primis quella balcanica, tutt’altro che risolta.

Il premio “Alfred Bauer” per l’opera più innovativa va al fluviale Hele Sa Hiwagang Hapis (A Lullaby to the Sorrowful Mystery) del maestro filippino Lav Diaz, esperienza cinematografica monstre con le sue otto ore e cinque minuti di durata. Si tratta di un altro riconoscimento politico, sia perché la lunghezza abnorme, come abbiamo giù avuto modo di dire, è, di per sé, una scelta politica contro la dipendenza del cinema dalle leggi del mercato, sia perché il film racconta, con momenti di poesia universali, la rivoluzione mancata delle Filippine della fine dell’Ottocento, facendone un archetipica riflessione sul ruolo e la responsabilità del singolo individuo nella storia e nella collettività.
Meritatissimo anche il riconoscimento alla miglior regia a Mia Hansen-Løve per L’avenir (Things to Come), bellissima riflessione in punta di fioretto su tempo, convenzioni e desiderio, vista dalla prospettiva di una professoressa di filosofia di mezza età, splendidamente interpretata da Isabelle Huppert, favorita della vigilia per l’Orso d’argento come miglior attrice, che invece la “collega” Maryl Streep ha consegnato nelle mani della bravissima e splendida Trine Dyrholm, quarantatreenne attrice danese (già pluripremiata protagonista di In un mondo migliore di Susanne Bier) che viene giustamente incoronata per Kollektivet (The Commune) dell’ex Dogma Tomas Vinterberg, film intelligente e amaro, mentre il miglior attore è il tunisino Majd Mastoura, protagonista di Inhebbek Hedi (Hedi) di Mohamed Ben Attia.
Questi i premi maggiori di un festival ricchissimo di spunti ma sicuramente qualitativamente al di sotto degli standard cui eravamo abituati dalle ultime edizioni, con alcuni film obiettivamente impresentabili nella sezione principale (Alone in Berlin è uno dei minimi storici della Berlinale) e con meno “colpi di fulmine” nelle sezioni collaterali.
Ora, il grande slam dei festival europei ci condurrà sulla Croisette di Cannes, tra meno di tre mesi. Intanto, è tempo di celebrare Gianfranco Rosi e il suo bellissimo successo berlinese.
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