Dopo un inizio zoppicante, il livello qualitativo del Festival del cinema di Berlino 2016 si è impennato notevolmente. Merito anche di Gianfranco Rosi, del quale abbiamo già detto nei giorni scorsi, ma anche di Lady Assayas, cioè Mia Hansen-Løve e del suo L’Avenir, e del portoghese Ferreira, con il suo ipnotico Cartas da Guerra. Primi spunti di interesse anche nella sezione Panorama, da sempre una delle più fertili alla Berlinale, nella quale abbiamo visto un paio di cose molto interessanti.
Ma andiamo con ordine.
CONCORSO INTERNAZIONALE
L’Avenir di Mia Hansen Løve
Giustamente uno dei film più attesi del festival, L’avenir conferma il grandissimo talento della trentacinquenne regista francese, moglie di Olivier Assayas. Protagonista di quest’opera è Nathalie, una professoressa di filosofia sulla cinquantina, magnificamente interpretata da Isabelle Huppert, il cui mondo fatto di certezze va improvvisamente in pezzi: la separazione dal marito, la maternità della figlia (e quindi la nuova condizione di nonna), la morte della madre, l’incontro con un ex studente anarchico che mette in discussione i fondamenti filosofico-culturali della sua visione del mondo. Nonostante racconti in poco più di un’ora e mezza questi delicati e anche tragici passaggi dell’esistenza della sua protagonista, il film riesce a mantenersi distante da qualsiasi concessione melodrammatica, si muove in un equilibrio leggero e quasi miracoloso tra commozione e ironia. In un tessuto di citazioni e riferimenti filosofici, seguiamo delicatamente la faticosa ricerca di Nathalie, che deve ricucire laboriosamente il rapporto tra se stessa e la propria immagine ideale. Ricerca che avviene in un coté molto intellettuale e borghese, eppure – ed è un mezzo miracolo – il film evita anche ogni forma di snobismo: la Hansen-Løve sembra voler semplicemente raccontare l’inevitabilità di alcuni passaggi di vita che ci investono a prescindere dallo status sociale e che ci costringono a parametrare ex novo il rapporto tra il nostro modo di essere e il nostro modo di guardarci. Questo, sì, è un processo universale e ineluttabile, e L’Avenir coglie meravigliosamente questo spunto.
Cartas da guerra (Letters from War), di Ivo M. Ferreira
Ivo M. Ferreira adatta per il cinema un romanzo di uno dei più famosi scrittori portoghesi, António Lobo Antunes, D’este viver aqui neste papel descripto: cartas de guerra (del 2005, pubblicato in Italia nel 2009 da Feltrinelli), opera che raccoglie e trasforma in flusso di coscienza le lettere che egli ha scritto alla prima moglie mentre si trovava in Angola tra il 1970 e il 1973 per la guerra coloniale portoghese. Ferreira, al terzo film, sceglie di mantenere fede allo stream of consciousness del romanzo, le cui epistole vengono riproposte in ampi frammenti a commento di scene fotografate in uno splendido bianco e nero e messe in fila senza un preciso nesso di causa-effetto. L’inizio del film è volutamente frastornante: volti di soldati appena giunti in Angola si sovrappongono gli uni agli altri, tanto che diventa complesso per noi stabilire chi sia Antonio, l’autore delle lettere che una voce femminile recita fuori campo. Un modo per suggerire che la vicenda raccontata è rappresentativa della condizione di ogni soldato in guerra. Poco dopo, il testo prende una piega quasi malickiana, riuscendo a trasmettere la malinconica saudade del protagonista e la progressiva formazione della sua coscienza politica. Un film ostico, che difficilmente troverà una distribuzione internazionale al di fuori dei paesi in cui Antunes gode di una certa fama, ma comunque suggestivo e visivamente potente.
24 Wochen (24 weeks), di Anne Zohra Berrached
Unico film tedesco in concorso, prende di petto un tema molto complesso e spinoso come quello dell’aborto volontario. In Germania è fuori legge, ma alcune condizioni particolari consentono deroghe molto frequenti alla normativa. Fra queste, le malformazioni e i problemi gravi di salute del nascituro, problemi che possono però essere riscontrati solo dopo l’ecografia morfologica. Il problema che si pone, a questo punto, però, è quello di un aborto fatto in una fase molto avanzata, il che accentua per diversi motivi i dubbi di carattere etico e morale. Il film della giovane (classe 1982) regista Anne Zohra Berrached si concentra proprio su un aborto “tardivo” e intelligentemente non prende posizione, si limita a seguire l’odissea di una coppia al cui futuro secondogenito viene diagnosticata la sindrome di Down alla ventiquattresima settimana. Ci sono, però, due problemi fondamentali, in questo film: il primo è che la questione della legittimità e dei limiti di una legge sull’aborto e i dilemmi etici che affronta chi si assume una responsabilità di questo tipo non possono prescindere da questioni locali, di tipo legislativo e storico. Per quanto empatica, quindi, sia la protagonista, la star tedesca Julia Jentsch, il discorso che viene intavolato ha un impatto notevole soprattutto, se non esclusivamente, per il pubblico tedesco e limita l’efficacia di un testo del genere in un festival internazionale. Secondo problema: la Berrached vuole evitare il patetico e ci riesce, ma per farlo rimane totalmente ingessata, tanto che ne esce un film segnato da una regia decisamente debole e poco incisiva, se non assente.
Smrt u Sarajevu (Death in Sarajevo), di Denis Tanovic
Denis Tanovic torna a Berlino tre anni dopo il gran premio della giuria per An Episode in the Life of an Iron Picker, che ne aveva sancito un parziale il riscatto dopo che le aspettative (molto alte) createsi con No Man’s Land, all’inizio della sua carriera, erano andate più che parzialmente disattese e lo fa adattando liberamente il testo teatrale di Bernard Henry-Lévy, Hotel Europe. Con una struttura allegorica molto precisa – e forse, a tratti, un po’ didascalica – Tanovic “chiude” nel contesto di un grande albergo di Sarajevo la Bosnia di oggi e la fotografa sullo sfondo della profonda inadeguatezza dell’Europa. È l’anniversario dell’attentato di Gavrilo Princip all’arciduca Francesco Ferdinando: una troupe televisiva sta girando uno speciale sulla controversa ricorrenza, mentre i dipendenti dell’albergo si preparano a uno sciopero. Ogni elemento narrativo ha un suo “facile” corrispettivo simbolico: il direttore dell’albergo rimanda alla nuova classe politica bosniaca, collusa con la malavita (che sta “sotto” l’albergo e interviene per i lavori sporchi) e ancora ferma alla vecchia gloria della Sarajevo olimpica del 1984, l’attore francese che si chiude nella sua stanza e prova il suo monologo disinteressandosi di quanto avviene fuori simboleggia l’Europa immobile e impotente, i lavoratori in sciopero dell’albergo sono le classi subalterne della nuova Bosnia, e via così, potremmo continuare all’infinito. Il tutto funziona e il racconto trova anche una fluidità inaspettata grazie allo stile molto “mobile” di Tanovic, che con lunghi piani sequenza sembra voler cercare, con il suo sguardo, quella coerenza di pensiero continuamente messa in discussione dai suoi personaggi, rappresentanti archetipici di una terra che sembra condannata a non trovare pace.
Alone in Berlin, di Vincent Pérez
Possiamo dirlo senza troppi giri di parole: ecco il peggiore film in concorso fino ad ora, uno di quei film di cui si fatica a giustificare la presenza in un festival come questo. Diretto dallo svizzero Vincent Pérez, la cui ultima apparizione risale a due anni fa, a Venezia, con il discreto Lines of Wellington, è il quarto adattamento per il grande schermo del romanzo di Hans Fallada Ognuno muore solo, pubblicato nel 1947 e incentrato sulla vicenda reale di Otto ed Elise Hampel, coppia di onesti e anonimi lavoratori di Berlino che nel 1940 decide di dare vita a una serie di atti di disobbedienza e di protesta contro il regime in seguito alla morte del figlio sul fronte francese (nella realtà si trattava del fratello di Elise), disseminando per la capitale centinaia di cartoline scritte a mano che contestano Hitler e inneggiano alla rivolta. L’adattamento di Perez è di una piattezza sconcertante, anonimo, sciatto e anche linguisticamente imbarazzante: ambientato a Berlino, è parlato in inglese, ma con decine di personaggi che esibiscono un fastidioso quanto immotivato accento tedesco. Un film che riesce in un’impresa non da poco: a vanificare del tutto la performance di due mostri come Emma Thompson e Brendan Gleeson.
Chang Jiang Tu (Crosscurrent), di Yang Chao
Grande sorpresa di giornata, Crosscurrent, il film di Yang Chao, regista vincitore della Camera d’Or di Un Certain Regard nel 2004 con Passages. Un film difficile, esigente, che racconta con grande ricchezza visiva l’elaborazione di un lutto amoroso e familiare da parte di un uomo, un marinaio che ha perso suo padre e che si è separato dal grande amore della sua vita. Il tempo è come un fiume, dice una didascalia all’inizio del film, perché scorre sempre, giorno e notte. E allora, ripercorrendo a ritroso la corrente del fiume, il protagonista del film cerca nel passato un senso al suo presente, indaga la sorgente del suo fiume per rinvenire un modo sostenibile per guardarne la foce. Onirico, simbolico e lento come la corrente del Fiume Azzurro, lungo cui è ambientato, è un film impreziosito dai paesaggi straordinari che diventano il correlativo oggettivo della vertigine emotiva del protagonista. L’opera più originale e interessante vista fin qui.
PANORAMA
War on Everyone, di John Michael McDonagh
Terzo film dell’irlandese John Michael McDonagh (dopo gli ottimi The Guard e Calvary), il primo girato negli Stati Uniti è un divertentissimo omaggio alla tradizione del Buddy Movie americano, molto seventies e molto ben costruito. Ambientato ad Albuquerque, in New Mexico, vede come protagonisti due detective alcolizzati, impertinenti e corrotti, che girano su una macchina vintage, indossano abiti vintage, ascoltano musica vintage e sono splendidamente interpretati da Alexander Skarsgaard e Joe Pena. Null’altro da dire, perché in effetti War on Everyone non è molto altro. Breve – meno di un’ora e mezza – e divertente, è un tuffo nostalgico in un cinema di genere che non esiste più.
The Ones Below, di David Farr
“You don’t deserve that thing inside you!”. È la battuta più bella e ambigua di questo sorprendente thriller, opera prima di David Farr, regista di lungo corso della Royal Shakespeare Company, che è il film più interessante visto fino ad ora nella sezione Panorama della Berlinale. Un esercizio di stile in cui Farr mostra tutto il suo amore per Polanski e Hitchcock: due meravigliose fanciulle bionde come protagoniste, due gravidanze, una interrotta da un incidente. Poi è tutto un gioco di sospetti, di ambiguità e di paranoia, fino ad un finale che zio Alfred avrebbe molto apprezzato.
SPECIAL GALA
Creepy, di Kurosawa Kyioshi
Il regista di Cure e Kairo torna al thriller e alle atmosfere morbose, dopo il melodramma Journey to the Shore, presentato in Un Certain Regarde a Cannes 2015. Creepy è un film divertente e godibile, meno inquietante dei film della prima carriera di Kurosawa, ma comunque interessante. Un ex detective ora docente di criminologia, alle prese con qualche senso di colpa, viene coinvolto in un caso irrisolto. La ricerca lo porterà a trovare verità anche troppo vicine. Certo, è un’opera che necessita di uno sforzo enorme di sospensione dell’incredulità: i personaggi compiono spesso azioni assurde in modi assurdi e non è sempre facile rimanere aggrappati alla tensione del film. Meglio funziona il tutto se letto in chiave simbolica: gli stessi spazi, dai soffitti bassi che incombono sui personaggi agli inquietanti cortili abbandonati che caratterizzano le varie abitazioni della vicenda, sembrano rimandare all’inconscio tormentato del protagonista e di sua moglie. Il film ha trovato una distribuzione americana, quindi preparatevi a vederlo nei prossimi mesi.