Provate ad immaginare il Festival del cinema di Berlino, uno dei più importanti in Europa, letteralmente sequestrato per una giornata intera. Per oltre otto ore la Marlene Dietrich Platz deserta, niente conferenze stampa, niente critici, niente anteprime. Dalle 9:30 del mattino tutto il carrozzone del festival è chiuso dentro la sala più importante, il Berlinale Palast, come sequestrato. Non è un attacco terroristico ma più semplicemente è l’evento più atteso (e anche un po’ temuto) di questa Berlinale, il nuovo film-maratona del filippino Lav Diaz, 484 minuti di durata. Potrebbe essere e normalmente sarebbe una liturgia esclusiva per cinefili duri e puri, ma non è così: c’è la televisione, le televisioni, e le telecamere, numerosissime, che intervistano critici e curiosi, addetti ai lavori e agguerriti spettatori all’ingresso della sala, ci sono misure di sicurezza decisamente più imponenti del solito, e c’è il cast sul red carpet, in abito da sera nel chiaro abbagliante di una fredda e soleggiata mattina berlinese. Si intitola Lullaby to the Sorrowful Mystery e decreta il definitivo spostamento del maestro filippino dal novero dei grandi autori di nicchia a quello dei grandi autori di culto. Che sia un bene o no sarà il tempo a decretarlo.
Chi è, dunque, Lav Diaz? Perché tanta attenzione attorno ad un film che in sala, probabilmente, non circolerà mai e che potrebbe scoraggiare, mortificare e mettere in fuga una buona parte della gente che va al cinema?
Filippino, classe 1958, Lavrente Indico Diaz è da tempo uno degli autori maggiormente amati dai cinefili di tutto il mondo e la durata abnorme è sempre stata una delle caratteristiche più rilevanti della sua opera. In primo luogo trattasi di scelta politica, perché Diaz ha sempre dichiarato di cercare un cinema che — parlando spesso degli umili, degli ultimi e delle loro sofferenza — sfugga a qualsiasi logica di mercato. La fluvialità è anche, però, una scelta estetica o forse linguistica: guardare un suo film corrisponde infatti ad entrare in un mondo a parte, varcare il limite della coscienza per perdersi in uno spazio-tempo di sogni, fantasmi e simboli, un abbandono che solo la durata prolungata riesce a rendere un’esperienza quasi ipnotica, decisamente unica.
Due anni fa Diaz ha vinto il Pardo d’oro al Festival del film Locarno con il capolavoro From What is Before (338 minuti), opera semplicemente perfetta su un remoto villaggio delle Filippine colpito da una serie d’eventi misteriosi e inspiegabili alla vigilia della proclamazione della legge marziale, nel 1972, agli albori, quindi, della feroce dittatura del presidente Marcos. Per la prima volta un film di Diaz finisce nel concorso principale di un grande festival (grazie alla tenacia di Carlo Chatrian) ed è un trionfo.
A Venezia e Cannes, Diaz ha già ottenuto consensi e qualche premio in Orizzonti e Un certain regarde, sezioni prestigiose ma collaterali. Ora, Dietrich Kösslich, direttore della Berlinale, dimostra che i tempi sono maturi per la consacrazione definitiva e ha collocato Diaz in concorso nell’edizione 2016, facendone, da subito, l’evento del festival.
Coraggio non da poco, quello di Kosslich, se si pensa che alcuni paesi occidentali (l’Italia fra questi) non hanno mai distribuito, interi o a puntate, film di Diaz. Ora Lullaby to the Sorrowful Mystery si candida autorevolmente per l’Orso d’oro, forse addirittura favorito in un concorso dal livello medio basso e in cui solo Fuocoammare di Rosi e L’avenir di Mia Hansen-Løve sono sembrati all’altezza del palcoscenico.
Com’è quest’ultimo film di Lav Diaz? Come sono state queste otto ore di segregazione nel Berlinale Palast? Innanzitutto la trama. Come sempre, il regista filippino ci racconta il suo paese, cercando, però, nelle pieghe della storia, quegli spunti simbolici che possano spostare il discorso su un piano universale. In questo caso, ci muoviamo tra il 1896 e il 1897, è scoppiata — e forse già finita — la rivoluzione filippina antispagnola, innescata da un acerbo orgoglio nazionalistico ma soffocata dalle rivalità intestine tra i diversi gruppi, frammentati come il tormentato arcipelago e in cerca della propria identità. Il film si prende le prime tre ore abbondanti per raccontare questa progressiva disgregazione e delineare i personaggi, attraverso un approccio molto più classico del solito Diaz: dialoghi abbondanti, qualche movimento di macchina, un montaggio più “visibile” rispetto al passato (o semplicemente: un montaggio). Poi, iniziano due viaggi: quello di Gregoria, la moglie dell’eroe della rivoluzione, Andres Bonifacio Castro, che cerca il corpo del marito nella giungla e quello di Simoun, rivoluzionario corrotto e gravemente ferito, trasportato su una barella dallo studente Isagani, che sembra fargli espiare i suoi peccati lungo un impervio percorso di sofferenza — sempre nella giungla — verso il luogo in cui potrà ricevere le sempre più improbabili cure. Questa seconda parte — se così si può chiamare, dato che di cinque ore si parla — diventa sempre più rarefatta, povera di dialoghi e ricca di suggestioni e di simboli.
La riflessione, potente e profonda, che Diaz porta avanti è tutta incentrata sui vari livelli di responsabilità e sulla conseguente dialettica tra il singolo e la collettività all’interno della storia: una non-nazione adolescente alle prese con l’assenza di un vero senso della storia, che non riesce a risolvere in chiave produttiva il conflitto tra desiderio e dovere morale. La rivoluzione filippina raccontata da Diaz diventa così un arcipelago di interessi particolari, una lezione universale sull’importanza delle singole scelte. Nell’innestare questo discorso nella gigantesca costruzione epica del suo monumentale film, però, questa volta Diaz perde il senso della misura. La straordinaria bellezza fotografica delle sue immagini questa volta sembra funzionare ad intermittenza: alcune delle lunghissime inquadrature nella giungla, fotografate da Larry Manda, storico collaboratore di Diaz, in un bianco e nero iper contrastato e chiuse in un frame vintage in 4:3, a volte sono pesanti e didascaliche. Alcuni dialoghi sono lontani dalla sobria e asciutta poesia cui Diaz ci ha abituato e suonano declamatori e verbosi, addirittura didascalici. L’eccesso didascalico, peraltro, apre un ulteriore problema: qual è il senso di un tono declamatorio e didascalico nell’ambito di un’opera che per sua stessa natura nasce come respingente verso il pubblico e destinata ad una circolazione ridottisima? Quel che rimane, per buona parte di questo ipnotico viaggio nella giungla, è l’impressione che, giunto al momento della sua prima grande ribalta internazionale, il cinema di Lav Diaz sia diventato maniera, rigidamente vincolato ad essere uguale a se stesso, copia di se stesso e forse molto più vicino a ciò che ci si aspetta che sia piuttosto che alla felice ispirazione che caratterizzava un’opera dall’equilibrio impeccabile come From What is Before.
Ai lettori de La VOCE di New York suggeriamo di guardare comunque out the frame e di provare ad immergersi nel cinema di Lav Diaz, recuperando però le sue precedenti prove. Si può esserne respinti o finirne catturati, ma si tratta di un’esperienza intellettuale, visiva e inconscia che merita di essere provata e che merita di ricevere un’attenzione particolare. E allora, come recuperare gli altri capolavori del regista filippino, senza dover necessariamente attendere che qualche rassegna o festival ne riproponga qualcuno? In primo luogo, attenzione al portale www.mubi.com, che ospita lo streaming del cinema indipendente, d’autore e spesso non distribuito e che quasi ogni mese propone — tra le molte cose interessanti — uno o più titoli anche del maestro filippino. In DV, invece, l’unico titolo facilmente reperibile è Norte, the End of History, del 2013, presentato a Cannes in Un certain Regard e considerato da alcuni il punto più alto della carriera di Lav Diaz.
La motivazione che può spingervi a guardare il cinema di Lav Diaz è enunciata proprio da uno dei personaggi di quest’ultimo Lullaby to the Sorrowful Mystery, un giornalista, che racconta agli altri invitati di una festa che cos’è “il cinematografo”, che egli ha potuto sperimentare a Parigi, direttamente in una delle serate dei Lumiere: è, dice, semplicemente “entrare” e “perdersi” in un altro mondo. Il cinema di Lav Diaz è estremamente esigente nei confronti degli spettatori, ma chi gli concede pazienza e fiducia sarà ricompensato entrando davvero in un mondo sull’orlo della coscienza in cui non è mai stato prima.
Guarda il trailer di Lullaby to the Sorrowful Mystery>>
I consigli Out the Frame di questa settimana:
2007 – Death in the Land of Encantos, di Lav Diaz