In quanti sanno che il primissimo personal computer è stato ideato da un gruppo di giovani coraggiosi creativi italiani capitanati da Pier Giorgio Perotto per la mitica Olivetti? “Sognavo di creare una macchina amichevole che chiunque potesse usare, che costasse poco e che fosse di dimensioni simili agli altri prodotti da ufficio a cui le persone erano già abituate” con queste parole Perotto ha spiegato come è arrivato alla realizzazione dell’Olivetti P101, il primissimo computer della storia dell’umanità che non avesse dimensioni mastodontiche, tanto che è stato accolto con entusiasmo persino dalla NASA che lo ha utilizzato durante la missione Apollo sulla luna nel 1969.
Il Programma 101 è stato lanciato nel mercato a New York nel 1965 e la celebrazione del cinquantenario di questo grande successo dell’ingegno italiano è il pretesto attorno al quale ruota la mostra Make in Italy. 50 Years of Italian Breakthroughs, all’Istituto Italiano di Cultura di New York dal 13 al 25 Novembre 2015.
La mostra è stata fortemente voluta e organizzata dalla Make in Italy Foundation e da Riccardo Luna, giornalista di Repubblica, ex direttore di Wired Italia e vicepresidente esecutivo della fondazione. La curatrice è la nota giornalista Maria Teresa Cometto che si occupa di tecnologia per il Corriere della Sera e tra le altre cose è coautrice, insieme ad Alessandro Piol del libro Tech and the City dedicato al mondo delle start up fiorite negli ultimi anni a New York. New York, dunque, come luogo pulsante in cui farsi conoscere al mondo intero e innescare collaborazioni.
È emblematico che la mostra sia proprio qui, a New York dove 50 anni fa è stato lanciato il P101, quel primo personal computer progettato da un gruppo di innovatori italiani. L’anniversario del lancio newyorchese del P101 è, per la curatrice della mostra, un pretesto per celebrare un aspetto spesso poco conosciuto, ma davvero fondamentale, della cultura italiana. È questa un’occasione per ricordare i tanti, spesso quasi del tutto sconosciuti, contributi italiani, al progresso tecnologico mondiale degli ultimi 50 anni.
È un luogo comune quello per cui alla base della rivoluzione digitale che ha cambiato profondamente le nostre abitudini, il nostro modo di comunicare e il nostro stile di vita, ci siano solo degli americani. Prima ancora che nascesse la Silicon Valley, l’italiano Federico Faggin, nel 1971, ha infatti creato il primissimo microchip, l’Intel 4004. Il concetto di “computer in un chip” ideato da Faggin, è alla base della telefonia mobile, degli smart phone e di tutti i device che fanno ormai parte della nostra quotidianità e senza i quali ormai non siamo più abituati a vivere. Questo è solo uno dei tanti esempi di come la storia della tecnologia mondiale abbia un debito culturale fortissimo con il Belpaese e non certo soltanto per quel che riguarda il design e l’estetica, come si è soliti pensare.
Per esempio, in quanti sanno che nel 1995, a Padova, Massimo Marchiori ha anticipato la rivoluzione del web costituita da Google e dagli altri motori di ricerca, sviluppando il primo algoritmo per le ricerche online che seleziona i risultati in base alla rilevanza, cercando le relazioni con l’intero web? In pochi. E non è solo un gap culturale degli italiani rispetto alla propria storia recente. Dice Maria Teresa Cometto, riferendosi alla mostra Silicon City: Computer History Made in New York che si tiene proprio in questi giorni alla New York Historical Society: “Dall’altra parte del parco proprio in questi giorni celebrano la storia del computer, passando per New York, esattamente come noi, ma trascurando i riferimenti agli italiani che hanno reso questi progressi possibili. Qui, invece, abbiamo costruito una time line in cui è chiaro quanto siano stati importanti gli interventi degli italiani”.
Infatti la mostra, allestita da MAD Madiz Architectur & Design in questa versione di New York che è un estratto della più grande esposizione organizzata durante Expo Milano, ripercorre la cronologia degli ultimi 50 anni di scoperte in ambito tecnologico mondiale, sottolineando i contributi italiani, a partire dal mitico primo P101 per arrivare alla macchina del caffè ISS Espresso che consente di fare il caffè nello spazio, sperimentata nel maggio del 2015 da Samantha Cristoforetti. Quest’ultimo è un progetto realizzato da Argotec e Lavazza in collaborazione con l’European Space Agency ed è esattamente l’emblema della perfetta combinazione delle eccellenze italiane. Davvero, per quanto riguarda il made (and make) in Italy, in questo caso si può dire: sky is the limit.
Insomma, si parla in continuazione di made in Italy in riferimento al cibo e alla moda, ma raramente gli italiani vengono associati alla tecnologia, eppure la nostra, sin dai tempi di Leonardo e anche prima è sempre stata la patria dell’ingegno a tutto tondo. Leonardo era un artista o uno scienziato? Era un visionario che ha saputo intrecciare competenze apparentemente lontanissime. Esattamente come Massimo Banzi e i quattro partner con cui ha dato vita al progetto Arduino nel 2005 ad Ivrea. Tutto è nato all’Interaction Design Institute di Ivrea, una scuola di design unica nel suo genere che ha operato dal 2001 al 2005 dando l’opportunità a grandi talenti di trovare una direzione e di intrecciarsi. Così è nata la scheda elettronica Arduino, inizialmente per rendere più semplice agli studenti la realizzazione di prototipi. In pochi anni è stato chiaro quante potenzialità avesse questa piccola scheda e quanto ci avvicinasse a un’idea di futuro possibile e accessibile a tutti che fino a pochi anni fa immaginavamo lontanissima e quasi fantascientifica.
Arduino è alla base di tecnologie che consentono la domotica e la robotica più avveniristica, dalla regolazione di luci e temperatura a partire da un unico dispositivo per arrivare alle stampanti 3D. Si tratta di un oggetto che dal 2014 fa parte della collezione del MoMa e si chiama come un bar di Ivrea che a sua volta prende il nome da Arduino d’Ivrea, re d’Italia nel 1002.
È incredibile pensare a come il successo mondiale di Arduino sia tuttora raramente ricollegato al fatto che è un progetto nato in Italia. “In effetti il primo a intervistarci in Italia è stato Riccardo Luna perché il direttore di Wired US gli ha chiesto se ci conosceva, fino ad allora in Italia la cosa era passata in sordina” e tuttora mentre quando arriva negli Stati Uniti, dove ha basato parte del suo business, Massimo Banzi viene celebrato come il grande imprenditore e innovatore che è, in Italia questo succede molto meno, perché? “In Italia c’è un rapporto complesso con il successo. C’è diffidenza”, dice.
C’è diffidenza, certo, ma forse semplicemente ancora in pochi sanno tutto quello che questa mostra ha da raccontare. Si tratta di una gran bella occasione per celebrare l’ingegno e il genio italiano che non è qualcosa di poi così astratto e ha, anzi, tantissime applicazioni pratiche. Ecco perché ha senso parlare di make in Italy e non solo di made in Italy.
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