Un altro mondo possibile. Un mondo dove l’amicizia tra i popoli del Mediterraneo diventa ricchezza e bellezza. Non un film denuncia ma un racconto di eroi di un’avventura tutta visionaria. Un film che sta dalla parte dell’umanità, anche se quest’ultima sembra essere ignorata dalla legalità e dalle leggi.
Uno dei film più belli del 2014, ora sta per sbarcare negli Stati Uniti dove sarà all’Houston Palestine Film Festival sabato 23 Maggio col titolo On the Bride's Side. Premiato alla scorsa mostra del cinema di Venezia con i premi Critica Sociale, Human Rights Night e Fedic, il film è stato selezionato per il premio Donatello.
Io sto con la sposa è un docu-film on the road commovente, intenso e pieno di grandi storie umane. Tutto nasce dall’incontro a Milano tra Khaled Soliman Al Nassiry, poeta siriano-palestinese da alcuni anni in Italia, Gabriele Del Grande, giornalista e regista, e cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa in fuga dalla guerra. I due decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia e, per evitare di essere arrestati come contrabbandieri, decidono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un'amica palestinese che si travestirà da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che si travestiranno da invitati. Il corteo nuziale attraverserà mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Un viaggio carico di emozioni che oltre a raccontare le storie e i sogni dei cinque palestinesi e siriani in fuga e dei loro speciali contrabbandieri, mostra un'Europa sconosciuta. Un'Europa transnazionale, solidale e goliardica che riesce a farsi beffa delle leggi e dei controlli della Fortezza con una mascherata che ha dell'incredibile, ma che altro non è che il racconto in presa diretta di una storia realmente accaduta sulla strada da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013. Un’umanità carica di sogni , di speranze, dove, come dice una dei protagonisti : “Il cielo è di tutti”.
Abbiamo intervistato due dei tre registi, Gabriele del Grande, che è anche un profondo conoscitore del Medio Oriente e Antonio Augugliaro.
Il vostro film ricorda l'Antigone di Sofocle, dove le "leggi divine" contrastano con le "leggi umane". Il vostro é un messaggio specifico: la legalità europea non tiene conto dell'umanità.

Gabriele Del Grande
Gabriele del Grande: “Le leggi europee su mobilità e immigrazione hanno causato almeno ventimila morti lungo le frontiere europee negli ultimi vent'anni. Ventimila viaggiatori uccisi non dal maltempo né dagli scafisti cattivi, ma da quelle leggi che hanno deciso di escludere Africa e paesi in guerra dalla mobilità nel mondo globalizzato. Noi abbiamo deciso di disobbedire e di riaffermare il diritto di tutti a viaggiare e a scegliere dove sognare di vivere meglio. E lo abbiamo fatto con l'ironia di una maschera e la gioia di un matrimonio, simbolo universale di festa e di unione. Per non essere arrestati come trafficanti poi, abbiamo cercato di coinvolgere il maggior numero di persone. E infatti, attraverso il crowdfunding, abbiamo raccolto oltre 3.000 donatori, che da un punto di vista penale sono i finanziatori del nostro crimine: favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Fare un processo a tremila persone sarebbe davvero complicato, sarebbe un fatto politico e infatti per ora nessuna procura si è azzardata”.
Antonio Augugliaro: Io sto con la sposa è un film che nasce prima di tutto come atto di disobbedienza civile. Disobbedienza a quel sistema di leggi che governa in Europa il flusso delle migrazioni e che decide chi può e chi non può entrare su un territorio. In fondo la legge può sbagliare. È la storia che ce lo insegna, e lo abbiamo sperimentato con le leggi razziali o con il divieto di voto per le donne. Prima dell’introduzione dei visti nell’88 e dei flussi migratori, ad esempio, la gente si spostava liberamente e legalmente tra l’Africa e l’Europa. Nessun morto. Nessun contrabbandiere. Nessuna speculazione politica su presunte invasioni. Oggi invece è diventato complicato essere accolti dall’Europa anche se si sta scappando da una guerra tremenda come quella siriana. Questo sistema ha generato più di 20.000 morti nel Mediterraneo dall’88 ad oggi (fonte Fortress Europe). Tutte persone a cui è stato vietato un visto per un ingresso regolare in Europa. La sensazione è quella di trovarsi davanti ad un bollettino di guerra e non ai risultati di una legislazione giusta e legittima. In fondo, quale legge può davvero impedire la mobilità di un individuo? Lo abbiamo visto in questi anni. Le persone viaggiano lo stesso, sfidando le situazioni più avverse e pericolose pur di tentare la via della salvezza”.
Quando avete pensato al film, avete anche pensato che poteva esserci un finale diverso?
GDG: “Quando siamo partiti da Milano per la Svezia non sapevamo cosa avremmo incontrato lungo la strada. Ricordo bene le prime ore di viaggio, quando temevamo di essere fermati in tangenziale a Milano dalla polizia, perché eravamo convinti che i nostri telefoni fossero intercettati e che le autorità fossero venute a conoscenza del nostro piano. Invece per fortuna è andato tutto bene”.

Antonio Augugliaro
AA: “Prima di partire avevamo scritto un canovaccio. Non era una vera e propria sceneggiatura perché non sapevamo quello che ci sarebbe successo in viaggio. Si trattava di una guida di riferimento per evitare di girare centinaia di ore e poi arrivare in montaggio senza sapere come strutturarle. Come tutti i canovacci era molto aperto. È stato facile per esempio inserirci dentro delle scene inaspettate, come quella di Mc Manar che rappa in un locale a Marsiglia, o come quella di Tasneem che canta sulla spiaggia guardando l’ultima frontiera del viaggio, quella tra Danimarca e Svezia. Eravamo pronti a qualsiasi epilogo, anche ad uno più drammatico, se fosse capitato. Ogni giorno ci dicevamo: 'E se qualcuno dei nostri protagonisti decide di scappare?'. Oppure: 'E se la polizia ci arresta?'. Tutto quello che doveva succedere, in un modo o nell’altro, sarebbe finito nel film, perché la nostra intenzione era quella di raccontare davvero il nostro viaggio da Milano a Stoccolma”.
Il film finisce con un messaggio di speranza. Secondo voi, alla luce degli ultimi eventi di cronaca, cosa bisogna fare per gestire meglio il complesso fenomeno della migrazione?
GDG: “Il film è carico di speranza perché racconta un mondo possibile. Non abbiamo fatto il classico film di denuncia. Non abbiamo raccontato le vittime del sistema. Al contrario abbiamo raccontato gli eroi di un'avventura visionaria: viaggiare senza documenti da Milano a Stoccolma travestiti da corteo nuziale. Così facendo abbiamo finito per raccontare la bellezza di un altro mondo possibile, un mondo dove possa esistere un'amicizia tra i popoli e le genti del Mediterraneo, un mondo dove alla guerra in Siria non si risponde chiudendo le frontiere ai profughi, ma al contrario inventandosi stratagemmi di solidarietà per continuare il viaggio, insieme, per costruire un “noi” un po' più largo, quantomeno Mediterraneo. Cosa bisogna fare per gestire meglio il complesso fenomeno della migrazione? Liberalizzare… Non c'è altra soluzione nel mondo globalizzato. L'Europa l'ha capito e infatti ha firmato accordi di libera circolazione con tutta l'Europa orientale e buona parte dei Balcani. Verso l'Africa e i paesi in guerra come la Siria invece, prevale la paura e la chiusura. Fino a quando non vedremo la mobilità come un valore aggiunto, non cesseremo di contare i morti in mare”.
AA: “Il finale del film è tutt’altro che positivo. Nella piazza di Stoccolma il gruppo festeggia per aver raggiunto la tanto sognata Svezia. Tuttavia la musica vibra sulle corde della malinconia, della tristezza, della solitudine. In effetti era questo l’umore del gruppo in quel momento. Perché il viaggio dalla Siria alla Svezia, per quanto duro e pericoloso, non è che l’inizio della difficile ricostruzione di una nuova vita in un Paese straniero e sconosciuto.
Venendo alla cronaca, penso che in primissima istanza bisognerebbe abolire subito i decreti flussi e concedere a tutti un visto. Si potrebbe anche introdurre un visto di ricerca lavoro, così chiunque potrebbe prendere un aereo, evitando di mettere tutti i propri soldi e la propria vita in mano a un contrabbandiere, e viaggiare verso il luogo che ha più da offrire in termini di occupazione”.
I rischi che avete messo in conto sono passati in secondo piano rispetto al vostro bisogno umano e professionale di raccontare.
GDG: “Accanto al film c'è il dato reale di un gruppo di persone che ha a cuore la Siria. Molti di noi hanno vissuto la guerra in prima persona. Altri hanno conosciuto la Siria prima del conflitto. Altri sono damasceni. Ognuno di noi sentiva il bisogno di fare qualcosa. I rischi non erano i nostri, ma quelli che vivono ogni giorno in Siria milioni di persone sotto i bombardamenti e ogni giorno in mare migliaia di persone che si imbarcano sulle rotte del contrabbando per l'Europa”.
AA: “Don Milani, un prete italiano vissuto tra il ’23 e il ’67 che è divenuto una figura di riferimento per il cattolicesimo socialmente impegnato, diceva che l’obbedienza non è ormai più una virtù e che è la più subdola delle tentazioni. Noi lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Abbiamo deciso di rispondere alla nostra legge morale ancor prima che alla legge di diritto. Abbiamo rischiato, è vero. Ma qual è il rischio più grande? Finire in prigione per una legge ingiusta o rimanere immobili davanti all’erosione dei propri diritti e della propria dignità di esseri umani?”.
Docu-film, road movie. Come é stato mettere insieme una storia che non poteva essere scritta prima?
GDG: “Nessuno di noi è un attore e quindi non potevamo scrivere dialoghi. Tutto quello che abbiamo registrato è uscito spontaneamente durante il viaggio. Quello che avevamo prima di partire era un canovaccio di scene. Avevamo cioè immaginato una serie di scene lungo il percorso che abbiamo provato poi a girare, senza sapere bene cosa sarebbe accaduto. A volte ha funzionato, altre no. Infine un paio di scene del film sono invece di finzione. Quando la sposa canta davanti al mare e il finale in piazza. Lì abbiamo voluto dare un tocco di regia e di poesia per raccontare meglio la storia”.
AA: “Molto faticoso. Tutto il film è stato girato nei quattro giorni di viaggio tra Milano e Stoccolma. Percorrevamo 800 o 900 chilometri al giorno! Eravamo sempre in ritardo perché spesso in autostrada qualcuno rimaneva indietro e faticavamo a ricompattare il gruppo. Si dormiva per tre ore a notte. Le telecamere erano quasi sempre accese e puntate sui nostri personaggi. Anche se gli operatori, me compreso, non sapevano l’arabo e quindi non capivano i contenuti dei dialoghi. Ma nel gruppo si era creata una magica complicità. Un velo invisibile che ci legava emotivamente, tanto che spesso non c’era bisogno delle parole per capire cosa stava succedendo. Come ad esempio nella scena in cui Abdallah, lo "sposo", scrive sul muro di una casa abbandonata i nomi delle persone, tra cui molti bambini, che ha visto annegare in mare durante il viaggio dalla Libia all’Italia”.
Cosa vi ha colpito di più umanamente quando avete girato il documentario?
GDG: “È stata una lavatrice di emozioni. Gioia, dolore, ansia, paura… Il tutto in una grande festa di nozze durata quattro giorni, il tempo del viaggio appunto… Alla fine siamo tornati a casa con un gruppo di amici e un'esperienza che ci ha cambiato tutti profondamente”.
AA: “La bellezza delle persone. Quella dei cinque palestinesi-siriani che abbiamo portato in Svezia. Quella degli amici che ci hanno supportato in questa folle avventura. E la bellezza di tutti quelli che ci hanno aperto le loro case e ci hanno ospitato per una notte anche se non ci avevano mai visti prima. È strano che non venga mai raccontato questo tipo di bellezza. Ci si concentra sempre sulle cose negative. Si mostra sempre quello che non funziona. Invece nel nostro film mostriamo come sarebbe bello il mondo se non ci fossero disuguaglianze. Se fossimo tutti solidali. In fondo la bellezza è l’unico antidoto contro il male”.
Il vostro é un manifesto politico, un atto di presa di coscienza. Come ha risposto il pubblico?
GDG: “La risposta del pubblico è straordinaria. In Italia abbiamo fatto numeri da record. A partire dal crowdfuding, con i 100.000 euro raccolti grazie a 2.617 donatori, record italiano del crowdfunding al cinema. E poi i numeri del pubblico in sala! In sei mesi di distribuzione abbiamo toccato oltre 300 città italiane raggiungendo oltre 130.000 spettatori! Numeri senza precedenti in Italia per un documentario, oltretutto in lingua originale (arabo). All'estero per ora abbiamo girato in 25 paesi nei 5 continenti. Ed è soltanto l'inizio! Al di là dei numeri, poi, in sala c'è sempre un grande entusiasmo per la passione civile e umana che il film trasmette. E anche chi non ne sa niente, o addirittura è prevenuto, torna a casa con una storia fuori da ogni cliché, con la sensazione di avere imparato qualcosa. È tutto straordinario! Pensate che in molte città siamo accolti da comitati di spose… decine di ragazze vestite di bianco per dire che anche loro stanno con la sposa e sostengono la nostra azione, forse illegale ma giusta!”.
AA: “a persona creando gruppi su Facebook e organizzandosi per garantire una prima assistenza alle persone che arrivano nelle loro ci
Crowdfunding e social media. Io sto con la sposa é un esempio di successo sul finanziamento dal basso e la campagna sui social media. Questa nuova forma di finanziamento rende più indipendente il cinema secondo voi?
GDG: “Sì e no. Nel senso che sicuramente il crowdfunding apre nuovi scenari di finanziamento per il cinema indipendente, ma non sempre è sufficiente. Dipende da molti fattori: la storia, i personaggi coinvolti, i personaggi che appoggiano la campagna, la notiziabilità della storia sui media tradizionali, la sua potenziale viralità… Diciamo che ci sono alcune storie più comunicabili e altre meno, ma non per questo meno importanti. Secondo me è un elemento in più quello della partecipazione dei futuri spettatori al finanziamento. Ma rimarrà sempre la necessità di un finanziamento pubblico per altri temi, magari più di nicchia o meno sensazionalistici. L'ideale sarebbe un buon mix dei due canali”.
AA: “Sicuramente sì. Non dover fare i conti con un grosso finanziatore come una emittente televisiva o un’azienda privata, ti consente di avere più libertà nelle scelte. Sia dal punto di vista artistico che distributivo. Diventa fondamentale però l’onestà intellettuale e la rispettabilità. È anche un test per vedere se il tuo progetto interessa davvero a una comunità oppure no. Però bisogna dire che, almeno in Italia, il crowdfunding non è ancora così diffuso. Quindi ad oggi è molto difficile per molti raccogliere tutti i soldi necessari per realizzare il proprio film”.
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