Al Festival di Cannes, dove è stato presentato, ancora prima che si spengano le luci in sala, Matteo Garrone merita un plauso sincero per il coraggio che dimostra. Il regista romano apparentemente “scarta” di netto dal suo abituale percorso autoriale, almeno narrativamente legato all’attualità, e svolta verso quanto di più raro ci sia nel cinema italiano, il fantastico-fiabesco.
Non solo, in tempi in cui tutti coloro che affrontano questo genere si affidano alla riproposizione di testi già ampiamente noti e consolidati, Garrone rispolvera Giovambattista Basile, autore napoletano “di nicchia” del Barocco italiano, che nella prima metà del ’600 pubblica un piccolo e oggi ancora troppo poco noto gioiello, Lu cunto de li cunti, a ben vedere uno dei pochi “picchi” del secolo più buio della letteratura italiana. E che picco, se addirittura uno come Benedetto Croce dichiarava di amarlo profondamente e studiosi di tutto il mondo oggi lo vedono come il punto di partenza di ogni raccolta europea di fiabe; eppure il pubblico tende ancora ad ignorarlo.
Tornando a Garrone, non bastassero queste due scelte – l’uscita apparente “dall’autorialità” e la riproposizione di un testo poco conosciuto – il regista ci “carica sopra” un’ambizione più che legittima, quella di dare al “suo” Basile una prospettiva internazionale. Per farlo, il regista di “Gomorra” assolda un cast cosmopolita, vario ed eterogeneo – anche linguisticamente – e gira il film in inglese, utilizzando, però, solo location mozzafiato italiane.
Ricapitoliamo: un regista dal talento indiscutibile, che ha costruito il suo successo cogliendo l’astratto e il simbolico nel reale, si dà improvvisamente al fantastico, sceglie una raccolta di fiabe napoletane barocche che pochi conoscono, la stravolge linguisticamente girandola in inglese ma la ambienta rigorosamente in Italia. Ci sarebbero tutte le premesse per un naufragio in piena regola.
Ora, fatto salvo il coraggio dell’operazione, credo sia opportuno chiarire, dopo aver visto il film, un equivoco in cui molti continuano ad inciampare: Il racconto dei racconti è un’opera molto più “garroniana” di quanto si possa pensare a prima vista e l’etichetta di “realista” che Garrone si porta dietro – forse più per Gomorra che per altro, scambiato a torto addirittura per un film Neorealista – è francamente fuorviante. Garrone ha sempre fatto un cinema visionario, in grado di portare il reale e l’attualità ad un livello superiore di astrazione e di universalità.
Il racconto dei racconti inizia piano, un po’ come Reality, con un giullare che cammina nel cortile di un castello, un attimo prima che inizi lo spettacolo, ci conduce “dentro" ad un luogo, accompagnando il nostro sguardo dentro al mondo della narrazione e della storia. Le storie sono, per la verità, tre, scelte tra le cinquanta che compongono il libro di Basile: quella di una regina (Salma Hayek) che ha perso il sorriso perché non riesce ad avere un figlio ed è disposta a tutto pur di diventare mamma, quella di un re (Toby Jones) che organizza un “gioco” impossibile per (non) trovare marito alla figlia che vorrebbe trattenere tra le mura del suo castello, e quella di un re (Vincent Cassel) assetato di sesso che viene “ingannato” da due anziane signore e da una inaspettata magia, vicende che vengono legate tra loro con un entralacement quasi “ariostesco".
Il filo conduttore, come si può notare, è l’amore, tema centrale del film in diverse accezioni: paterno, materno, carnale, visto però sempre nella sua componente più problematica, cioè quando si trasforma in possesso, si spinge all’inganno o precipita nell’abisso dell’ossessione. Non siamo molto distanti da due opere come L’imbalsamatore o Primo amore, e se il tema paranoico che interessa a Garrone è lo stesso, in questo caso il senso di marcia è quello inverso: tanto nei due film sopra citati il mondo reale assumeva i tratti di un incubo visionario, quanto qui il fiabesco si veste di realtà come raramente ci è capitato di vedere al cinema. Proprio come nei sogni, a sgomentarci è il perturbante che ci rimanda al reale, e l’aspetto violentemente disturbante, in quest'opera, è proprio l’irruzione prepotente del realistico nel fiabesco, che crea una commistione suggestiva e sconcertante. In una scintillante messinscena che conferma come nessun cineasta, in Italia, abbia una sensibilità visiva simile a quella di Matteo Garrone (fatta eccezione per il competitor Paolo Sorrentino), Il racconto dei racconti è una fiaba nera fatta di carne, di sangue, di ferite, di personaggi simbolici messi a nudo fino ad essere – letteralmente – scorticati. Restiamo in attesa di vedere tutti i “rivali" sfilare sulla Croisette, per ora è sufficiente dire che non sarebbe impensabile vederlo entrare nel lotto dei premiati.
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