Come tutte le dittature anche il Fascismo ha usato a piene mani il cinema per la propria propaganda, per costruire un'immagine di sé e del proprio popolo, spesso per proiettare sogni e illusioni, sempre per distrarre l'attenzione dai problemi quotidiani.
Eppure di Mussolini e del Fascismo abbiamo in mente i cinegiornali, mentre i film e i documentari prodotti durante il Fascismo sono meno noti, e ancor meno noti quelli di tema coloniale, ambientati e girati in Etiopia, in Eritrea, in Somalia e in Libia, che vanno sotto il nome di “cinema dell'impero”. Il faraonico progetto di ricostruire un impero italiano oltremare, sulle spoglie del grande impero romano, ha dato luogo a un cinema imperiale, appunto, che però al di là delle circostanze storiche e politiche in cui è stato realizzato, aveva in sé elementi estetici fondamentali che andranno poi a svilupparsi nel Neorealismo del dopoguerra.
Nonostante la rilevanza storia, estetica e filmologica di questo cinema, quasi nessuno se n'è mai occupato. Ruth Ben-Ghiat, docente di storia e studi italiani alla New York University, per la prima volta propone un'analisi approfondita ed esaustiva del cinema imperiale fascista nel libro Italian Fascism's Empire Cinema, presentato il 9 aprile alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University.
Una presentazione a più voci in cui, accanto a Ruth Ben-Ghiat, si sono alternati studiosi di cinema e storia italiana fra i più autorevoli nel panorama statunitense: Richard Peña, docente alla School of Arts della Columbia University ed ex direttore del Lincoln Center, con cui ha organizzato importanti festival e rassegne fra cui Open Roads, dedicata al cinema italiano; Joseph Luzzi, docente di Italiano al Bard College e autore del recente My two Italies, e Stanislao Pugliese, docente di Studi italiani e italoamericani alla Hofstra University, oltre al direttore della Casa Italiana, Stefano Albertini.
Molti i punti trattati nella discussione su un cinema che si rivela quanto mai complesso e interessante, dietro all'uniformità ideologica e di intenti. Un cinema fatto di dualismi: patria/colonie, città/deserto, tradizione/modernità, eterosessualità/omosessualità, campanilismo/cosmopolitismo, e molti altri ancora. Un cinema che propone la mobilità in tutte le sue forme, in contraddizione con il nazionalismo domestico che tende a tenere tutti al proprio posto: mobilità dei soggetti trattati come anche dello stesso fare cinema – italiani che emigrano nelle colonie, tribù africane che si spostano per recitare come comparse, registi che viaggiano per girare i film, mondi lontani da quelli domestici. Un cinema che entra a pieno titolo nell'esotismo internazionale dell'epoca cavalcato da Hollywood ma anche dal cinema coloniale britannico e francese. Un cinema fatto (anche) da registi che si formano in quegli anni rivelando subito un talento e un'autorialità che avranno poi modo di sviluppare negli anni successivi, primo fra tutti Roberto Rossellini che al tempo firmò Un pilota ritorna e in seguito divenne maestro indiscusso del Neorealismo; ma anche il grande Mario Camerini, regista del coloniale Il grande appello, o registi internazionali (per carriera e biografia) come Augusto Genina, autore de Lo squadrone bianco (interpretato da Fosco Giachetti, star assoluta del cinema del Fascismo), uno dei grandi successi commerciali di questi anni, accanto a registi convintamente schierati con il Fascismo come Romolo Marcellini.
Un cinema fatto di sogni espansionistici e affermazioni razziali e di genere, che però racconta anche la povertà, che è la povertà degli italiani che emigrano nelle colonie per andare a costruire le strade o a lavorare come braccianti, ritrae il machismo di stampo mussoliniano che però viene spesso umiliato dalla donna fatale in questione, un cinema che utilizza anche attori somali ed etiopi, talvolta accreditandoli anche nei titoli, cosa che non succede quasi mai nelle cinematografie coloniali.
Tutto questo per spiegare un cinema fatto di contraddizioni, che fanno del Fascism's Empire Cinema un cinema complesso e fragile, come ben spiega Ruth Ben-Ghiat nel suo libro, che non è possibile liquidare sotto una generica etichetta di cinema di propaganda proprio perché ha in nuce elementi profondi, storici, culturali ma anche estetici, che hanno un profondo significato in sé, in quella che è l'analisi filmologica e anche in prospettiva rispetto alla nascita poi del Neorealismo e del cinema d'autore italiano.
Guardando gli spezzoni proiettati durante la presentazione del libro e commentati da Ben-Ghiat in relazione al suo studio, non si può non pensare che con questo cinema in Italia non abbiamo mai fatto veramente i conti (tranne qualche singolo studioso meravigliosamente controcorrente che ha studiato e proposto film e registi del cinema coloniale fascista, penso a Sergio Germani e Alberto Farassino): è un cinema che è stato semplicemente messo sotto al tappeto, una pratica che sembra consueta nel nostro paese.
E in effetti c'è voluta una studiosa americana per andare a cercare film dimenticati, farne uno studio organico e approfondito – e riuscire a pubblicarlo, anche questo elemento non secondario. E non a caso questa studiosa è Ruth Ben-Ghiat, che non solo è una dei massimi esperti negli Stati Uniti del pensiero culturale italiano, in particolare degli anni del Fascismo, ma è la stessa che, vent'anni fa, aveva sollevato un problema che all'epoca fece scalpore sulla stampa italiana, e cioè quello del coinvolgimento nel Fascismo di artisti e intellettuali, cosa più che spiegabile in sé, accaduta in tutti i regimi, ma che in Italia – scriveva Ruth Ben-Ghiat, si è preferito subito dimenticare. E in qualche modo questo punto ritorna anche nel libro Italian Fascism's Empire Cinema, e nel dibattito alla Casa Italiana: Roberto Rossellini era grande amico di Vittorio Mussolini, Rossellini ha fatto film di propaganda, eppure Rossellini è tra i più grandi e liberi cineasti e intellettuali che l'Italia abbia mai avuto. Questa non è una contraddizione, è la vita, l'importante è sollevare ogni tanto quel famoso tappeto e guardarci bene sotto.