Francesco Rosi, scomparso qualche giorno fa all'età di 92 anni, è stato un grande regista, protagonista di quel cinema che ha fatto scuola e di cui l'Italia può essere legittimamente orgogliosa. Renzo Rossellini e Federico Fellini, Mario Monicelli e Pietro Germi, Dini Risi e Michelangelo Antonioni, e chissà quanti ne dimentico… Ma bastano questi pochi nomi per dimostrare che vitalità e che respiro artistico ha avuto la cinematografia italiana; e Rosi fa parte di questo ideale Pantheon.
Rosi ci ha regalato alcuni film che sono e hanno fatto la storia di quel cinema capace di coniugare impegno civile a rigore stilistico; ”Salvatore Giuliano”, per esempio; racconta un’esemplare storia di commistione tra mafia, politica, istituzioni, la storia del celebre bandito Giuliano: da comandante dell’esercito separatista siciliano a strumento della mafia, fino a quando non serve più, e viene eliminato. Un film coraggioso sia per il contenuto che per la tecnica con cui è stato realizzato, nel 1962. “Mani sulla città” dell’anno dopo, descrive il sacco e il saccheggio, la selvaggia speculazione edilizia di Napoli, con uno straordinario Rod Steiger, che riesce a calarsi in una parte non facile, e per lui artista americano, assolutamente inedita. C'è poi “Il caso Mattei”, interpretato da un Gian Maria Volonté che è già il grande attore che sappiamo: storia del presidente dell’ENI che pone le basi di una politica nazionale dell’energia svincolata dal potere e dai condizionamenti delle sette sorelle petrolifere, ed è vittima di un misterioso incidente aereo di sapore mafioso, con quel volo decollato da Catania e precipitato vicino a Bescapé; un film realizzato con il ritmo dell’inchiesta giornalistica incalzante e meticolosa, dove si riconoscono un giovanissimo Furio Colombo, ma compaiono anche Arrigo Benedetti, Michele Pantaleone, Ferruccio Parri che interpretano loro stessi; e l'ultimo, “La tregua” del 1997, tratto dal romanzo autobiografico di Primo Levi: struggente racconto del travagliato ritorno di un gruppo di deportati italiani dal lager di Auschwitz, con l'attore italo americano John Turturro nella parte di Levi. Autentici classici. Film da studiare per la loro cifra stilistica, per la sapiente costruzione di ambienti, per l’essenzialità e l’assenza di retorica, frutto di un sapiente “artigianato” capace di miscelare sentimento e occhio attento alla realtà, passione per il dettaglio che svela il tutto e capacità di cogliere una verità scomoda al di là di quella compiacente, compiaciuta ed “ufficiale”.
Era un privilegio poter assistere alle discussioni accalorate e appassionate che lo vedevano protagonista, lui e l’adorata Giancarla, moglie di una vita, a un tavolo del ristorante vicino al Pantheon, con commensali come Leonardo Sciascia, Lino Iannuzzi, Antonello Trombadori, e ascoltarli spaziare dalle vicende politiche al divertito pettegolezzo di un collega artista che ridicolmente si pavoneggiava; l’ultima mostra di un artista francese, e il libro di un autore italiano, il suo valore, vero o presunto…Sciascia socchiudeva gli occhi e sorrideva divertito; Iannuzzi raccontava scenari immaginifici, dotato com’era dell’arte di raccontare cose vere come se fossero fantastiche e cose fantastiche come se fossero vere; Trombadori con i suoi fragorosi furori, lui che negli anni Cinquanta era stato il più fedele alla linea del partito, che sempre più se ne dissociava con freddure feroci all’indirizzo di capi di cui non riconosceva più alcuna autorevolezza; e Rosi che non aveva alcuna nostalgia per i tempi passati, ma ne sottolineava la continuità con i presenti…e si sentiva prigioniero di una melma che lo faceva sprofondare sempre più in basso. Per un giovane ventenne poter assistere a un simile helzapoppin politico culturale era una vera festa…
Per tornare ai film, quello che qui più mi preme segnalare è “Cadaveri eccellenti”, del 1976, con un bravissimo Lino Ventura, affiancato da una serie di co-protagonisti che vanno da Luigi Pistilli a Renato Salvadori, da Tino Carraro a Marcel Bozzuffi; e straordinario e Alain Cluny, nel ruolo di Riches, il giudice della Corte Suprema: “…Prendiamo, ecco, la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri; ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione, il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei diegno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni forma di debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo. Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato la messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta. Sicuramente. E direi anche: inevitabilmente. Pensi a quel prete che, dubitando, al momento della consacrazione si ebbe sangue sulle vesti. E io posso dire: nessuna sentenza mi ha mai sanguinato tra le mani, ha macchiato la mia toga…"
“Cadaveri eccellenti” è ricavato da un grande libro, Il Contesto di Leonardo Sciascia; libro pubblicato nel 1971, e che non è esagerato definire profetico. Sia il libro che il film sono la rappresentazione paradossale ma non troppo di un potere criminale, un potere-delitto che arriva ad assimilare, a degradare e a corrompere anche le forze che a quel potere si dovrebbero contrapporre: “…Voi sapete qual è la situazione politica, si può condensare in una battuta: il mio partito, che malgoverna da trentanni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale…”, dice il ministro dell’Interno. Perché anche per il Partito Rivoluzionario Internazionale (così Sciascia chiama quello che a tutti gli effetti è il PCI) la verità a volte può non essere rivoluzionaria; e “c’è ancora la ragione di Stato, come ai tempi di Richelieu…”. Suscitò un mare di polemiche a sinistra come a destra, il libro quando uscì; e si può capire. “Ho cominciato a scriverlo con divertimento, l’ho finito che non mi divertivo più”, scrive Sciascia in una nota alla fine del libro.
Sia il libro che il film di Rosi sono intrisi di un sentimento di allarme angoscioso sul futuro di una società e di un mondo in cui, immaginano, non si può più esprimere liberamente e democraticamente la propria presenza e la propria volontà. Un timore e un allarme, come vediamo oggi, tutt’altro che infondati. I temuti (e prefigurati, previsti) tempi futuri sono diventati il nostro presente.