New York se fosse un’opera teatrale sarebbe sicuramente il Faust di Goethe mentre il luogo teatrale per eccellenza della Grande Mela é la metropolitana. Viene dal teatro dei grandi nomi, Orietta Crispino, triestina di nascita, ma dal 2000 a New York.
Dopo aver frequentato il Teatro Piccolo di Milano e lavorato con Giorgio Strehler e Massimo Castri, Orietta si apre al teatro sperimentale a alla visual art lavorando anche sul corpo come strumento di comunicazione. Arriva a New York per la prima volta nel 1997 e si lascia subito contaminare dai vari linguaggi e modelli sperimentali. Dai grandi spazi teatrali italiani ai piccolo spazi newyorchesi, quelli underground, sperimentali, dove il teatro si vive ogni giorno come scelta, si discute, si crea.

Lo spettacolo Three Sisters Come and Go
Il teatro per Orietta é stato sempre una scelta di vita. Sia quando a Trieste ha lavorato a un progetto triennale sulle opere di Pirandello, che quando in America ha fondato TheaterLab, nel 2005, un laboratorio sperimentale oggi anche punto di incontro per gli artisti che amano un certo linguaggio di rottura con gli schemi tradizionali. I suoi lavori mirano sempre a creare un ibrido anche nella composizione del pubblico e si caratterizzano per la sua forte lettura e interpretazione personale. Non mancano i grandi riferimenti: Beckett e Chekhov. Entrambi gli autori hanno ispirato uno dei suoi lavori più importanti Three Sisters Come and Go.
Da un anno, il TheatreLab si é spostato a Midtown dove il 6 Novembre ci sarà la première di Snow in the Living Room, una pièce da lei scritta e poi tradotta in inglese da Marco Casazza. Ci racconta da New York come la città sta cambiando e con questo processo anche l’offerta culturale. Orietta resta però legata all’idea di teatro che ha il compito di educare il pubblico.
Orietta, uno dei tuoi lavori si chiama Not Made in Italy? Di cosa si tratta?
È una presentazione di artisti italiani che hanno lasciato il paese e si sono trasferiti all’estero. In realtà è anche un processo sperimentale che vuole esplorare le ridefinizione dell’identità personale e culturale quando si lascia il proprio paese. Cosa resta del made in Italy quando si va fuori? Osservando i lavori di questi artisti, mi sono accorta che, il trasferimento all’estero ha aiutato il processo di ricostruzione e definizione della nuova identità.
Parliamo invece del tuo spettacolo, Snow in the Living Room, che andrà in scena a partire da questo giovedì. Da dove nasce l’idea ?

Un momento dello spettacolo Snow in the Living Room
È un monodrama poetico che parte dalla favola dei fratelli Grimm, Biancaneve, ma che viene riscritta in chiave poetica e molto scura. L’ho scritto in italiano nel 1997 perché sono stata sempre affascinata dalle favole in quanto credo e condivido l’idea che contengano “istruzioni per l’anima” e sono accessibili a tutti. Il testo su cui ho lavorato, immagina la morte di Biancaneve, come il viaggio di cui parlano i buddisti nel Libro Tibetano dei morti. Il Bardo, per i buddisti é un intervallo tra la morte e la rinascita. In questo doppio-gioco insieme a Liza Cassidy, la co-protagonista dello spettacolo, descrivo la morte come un viaggio adottando un linguaggio che rompe con gli schemi narrativi tipici e che usa l’arte visuale come strumento importante.
Non senza riflessioni, immagino, sulla vita.
Le riflessioni sono tante. Quelle sul costante rinascere e quelle sulle donne. C’e molta riflessione sugli archetipi che ci hanno culturalmente ingabbiato. Tra questi, Biancaneve con il desiderio del principe, altro non rappresenta, tradotto nella nostra contemporaneità, quell’assioma che la donna si realizza solo se ha una vita familiare e mette al mondo figli.
Che difficoltá ci sono state nella traduzione in inglese?
L’Italiano é una lingua complessa, lirica e poetica. Laddove non siamo riusciti a rendere il concetto linguisticamente abbiamo provveduto con l’arte visuale.
Uno spettacolo, Snow in the Living Room, che si rivolge ad un pubblico impegnato…

Un momento dello spettacolo Snow in the Living Room
E’ sicuramente un pubblico sperimentale, non da mainstream. Mi piace però pensarlo come un pubblico ibrido. È un problema della comunità indipendente quella di creare un pubblico “incestuoso” dove ci si ritrova sempre tra noi che facciamo teatro o conosciamo un certo tipo di teatro. Per me il teatro é far conoscere a chi non sa, educare.
Dal teatro classico che in Italia ti ha formato a quello più sperimentale che segui e fai a New York. Come è stato per te questo passaggio?
Innanzitutto sono cambiati gli spazi: dai grandi teatri italiani ai piccolissimi, quasi improvvisati, spazi newyorchesi. In Italia, ho lavorato con i grandi nomi ma c’era una gerarchia del potere diversa. Certamente a New York sono entrate nella mia formazione ed espressione diverse forme di contaminazione. Un percorso necessario ed inevitabile quando si vive in un contesto multiculturale come questo. Quello che non è cambiato e il mio approccio certosino al lavoro.
Quali sono le differenze tra il teatro in Italia e a New York?
Nonostante l’Italia non abbia mai investito nella cultura come la Francia, il teatro da dove vengo io era quello delle grandi sovvenzioni statali, della cultura come bene civile. In America, a parte le grandi produzioni mainstream che sono in un circuito di business da capogiro, le produzioni indipendenti vivono di una sofferente economia di organizzazione. Ci sono dei grant, degli sponsor ma di solito si fa molta fatica. Dall’altro lato però, questa precarietà e provvisorietà, stimola una maggiore creatività e collaborazione.
C’è quindi una collaborazione, nel mondo teatrale, tra gli artisti italiani?
C’è sicuramente a livello di piccoli gruppi ma non di sistema. Quello che sento è un grande fermento a voler fare di più e creare un ponte con l’Italia. A New York non esiste un teatro italiano. Ci sono in scena i grandi classici, come Pirandello, ma i lavori contemporanei non arrivano. Ci sono poi i soliti stereotipi e i lavori di sperimentazione. Questi ultimi però, arrivano solo ad un livello più alto e non sono veicolati a tutti. Gli americani hanno voglia di sapere di più dell’Italia contemporanea. C’è una certa difficoltà a trasmettere e promuovere la cultura contemporanea italiana a New York.
Questo perché?

Lo spettacolo Three Sisters Come and Go
E’ un discorso sicuramente economico ma anche culturale ed istituzionale. Nel primo caso, bisogna ricordarsi che esiste una frattura con il mondo italo-americano. Loro sono rimasti vincolati ad un’idea dell’Italia che per noi è superata. Nel secondo caso, sarebbe più opportuno se le istituzioni lavorassero alla promozione del made in Italy che includa non solo il cibo ma anche il teatro, la danza, la fotografia.
Parli di fermento. Questo significa anche portare produzioni teatrali dall’Italia.
Ultimamente, sto cercando di connettermi e di avvicinarmi di più alla comunità italiana qui a New York. Perché sento e vedo che abbiamo una percezione dell’Italia diversa, rispetto a chi vive ed è rimasto in Italia. Con Marco Casazza, mio prezioso collaboratore, porteremo nel mio Theaterlab, il prossimo gennaio, Una di Enrico Luttman, da lui diretto e prodotto dal Teatro Stabile di Trieste.
L’Italia che hai lasciato. Cosa ti porti dietro?
Mi manca la lingua e il modo in cui si instaurano le amicizie. Qui, hai la sensazione che tutto sia di passaggio. Mi trovo in un limbo, come tutti quelli che lasciano il proprio paese.
New York cambia e con la città cambia anche l’offerta culturale?
Non è più la New York febricitante e adrenalica degli anni '70, dove tutto era sperimentazione continua. Questo per un processo inevitabile a cui sono sottoposte le grandi metropoli. New York sta sempre diventando una città per ricchi e questo significa affitti alti e un’offerta teatrale sempre più orientata verso un pubblico ricco che preferisce non di certo gli spettacoli indipendenti nel basement.
New York e i suoi luoghi più teatrali e se fosse un’opera teatrale quale sarebbe?
Times Square per quei colori abbaglianti e quel fiume di persone che si riversano ogni giorno. La metropolitana, per la sua umanità variegata che mette insieme storie, colori, ceti sociali, è lo spettacolo teatrale più interessante. Se fosse un’opera teatrale, senza dubbio, Faust di Goethe. Perché New York fa il patto con il diavolo e si rigenera costantemente. È una città di grande cultura, di grandi desideri ma anche demoniaca.
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