Bisogna ripartire dalla parola “colonialismo” per capire la storia e la letteratura dell'Etiopia. I nomi hanno spesso fatto la storia. Prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, al tempo delle campagne in Africa di Mussolini, l'Etiopia diventa l'Abissinia e la sua popolazione quella degli abissini. L'Abissinia nasce con il fascismo e con esso muore e il colonialismo sembra che nella terra d'Africa non sia mai arrivato. Ne è certo il professore Shiferan Bekele, storico dell'Università di Addis Abeba, che ricostruisce la storia della sua terra con parole nuove, almeno per gli storici italiani.
Lo storico etiope ha partecipato venerdì scorso al Simposio sull'eredità dell'occupazione italiana in Etiopa presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University. All'incontro, Legacies of the Italian Occupation of Ethiopia, studiosi di storia e letteratura hanno incrociato i due campi, quello storico e quello letterario, per scoprire cosa della guerra mussoliniana è rimasto nella cultura etiope.

Shiferan Bekele, storico dell’Università di Addis Abeba
Il professor Bekele ridimensiona la visione che etiopi e italiani hanno di quel periodo. Prima di tutto, spiega che “non possiamo parlare di colonialismo in Etiopia, ma di un'occupazione che è durata solo 5 anni”. E aggiunge che “come quando parliamo dell'occupazione della Germania nei confronti della Francia, del Belgio e della Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale non parliamo di colonialismo tedesco, allo stesso modo non possiamo definire colonialismo quello italiano in Etiopia”. Durante la Seconda Guerra Mondiale molte nazioni erano occupate da eserciti stranieri, ma “in quei casi non si è mai parlato di colonialismo”.
Non si tratta solo di dire che quello di Mussolini è stato un regime meno maturo e che i suoi imperi sono stati più deboli, come sostengono alcuni storici, ma di capire per quale motivo si parla di colonialismo italiano in Etiopia.
“Gli storici italiani preferiscono chiamarlo 'colonialismo', ma è il punto di vista italiano che non rappresenta la posizione degli etiopi e di altri studiosi”, spiega lo storico etiope. Questo tuttavia non significa che gli storici italiani sono più critici verso il regime rispetto agli etiopi, ma che loro lo considerano colonialismo in quanto destinato a civilizzare gli etiopi. “Quelle dellla civilizzazione era la tipica giustificazione colonialista per occupare altre terre e altre persone. – spiega il professore – Gli storici italiani dicono anche che è stata una guerra coloniale, come quelle fatte da Gran Bretagna e Francia nel XIX secolo, e cosi ripeteva anche Mussolini per propaganda”.
L'importanza dell'occupazione italiana in Etiopia non è atttribuile alla presunta grandezza dell'impero che il Duce rivendicava, ma molto più semplicemente alla ricostruzione mitica dell'evento fatta anche dall'immaginario etiope.
“L'occupazione dell'Etiopia è diventato un momento della definizione della propria identità – dice Bekele – ed è stata utilizzata per la creare le basi del nazionalismo e del patriottismo etiopi”. Cosi la memoria della guerra, della repressione, delle crudeltà e dei massacri fatti dagi italiani sono stati esaltati più del dovuto per giustificare la nascita del nazionalismo etiope”.
È dunque questo il segno che l'occupazione italiana ha lasciato nella cultura etiope e quindi nella letteratura. La definisce “letteratura della guerra” la ricercatrice e studiosa di letteratura etiope e africana Heran Sereke-Brhan. “Da essa – spiega – nasce una sorta di patriottismo, il tema dell'unità nazionale, l'amore della patria e la difesa dell'indipendenza. C'è molta letteratura scritta nel periodo dell'invasione dell'Italia, ci sono racconti sui movimenti di resistenza contro l'Italia, storie di figure eroiche, persone martirizzate e uccise”.
Anche nella letteratura il colonialismo si riduce a semplice occupazione e le vicende umane interpretano, ancora una volta meglio delle vicende politiche, la storia. Nei romanzi, come nelle poesie o nelle opere teatrali non ci sono personaggi italiani, se non di secondo piano. “L'identità italiana non si sente molto nelle pagine dei romanzi o delle poesie. Nella letteratura non ci sono personaggi italiani di primo piano, e quando ci sono stanno sullo sfondo o sono dipinti come caricature, esprimendo così il sentimento di odio degli etiopi nei confronti dell'Italia”.
Nella letteratura etiope non c'è nessuna traccia, o quasi, dei cinque anni di occupazione e degli italiani. Pur ridimensionando il fenomeno storico, decidendo di mettersi dalla parte dello storico di Addis Abeba e cancellando la parola 'colonialismo', risulta difficile capire il perchè dell'assenza italiana nella letteratura etiope.
“Se devo essere onesto c'è più materiale sulla battaglia di Adua e sulla prima invasione italiana che sull'occupazione. – dice Dagmawi Woubshet, studioso della lettteratura e cultura afroamericana. – Sono curioso come tanti altri studiosi di sapere il perchè di questa assenza, cinque anni di occupazione sono importanti”.
Nonostante il vuoto letterario, la presenza italiana è evidente ancora oggi nell'architettura. “In città come Addis Abeba il paesaggio è stato ridisegnato da architetti italiani durante l'occupazione, come nel caso del teatro nazionale e della banca nazionale. Rappresentano tracce di quel periodo. – spiega Woubshet – Anche se molti etiopi non sanno che sono stati costruiti durante l'occupazione, essi entrano quotidianamente in contatto con questi edifici”.
Gli anni dell'occupazione sono lontani. L'ingresso dell'esercito italiano ad Addis Abeba il 5 maggio del 1936. Quattro giorni dopo veniva proclamata la nascita dell'Impero italiano e avveniva l'incoronazione di Vittorio Emanuele III come Imperatore d'Etiopia. Le truppe italiane andarono via nel 1941, lasciarono dietro di sè massacri, distruzione e morte. Momenti drammatici per una generazione che però non vengono ricordati abbastanza.
Woubshet dice che oggi “nell'immaginazione e nella memoria della cultura popolare non c'è ancora consapevolezza di quegli anni”. Per capire cosa è entrato nella coscienza collettiva degli etiopi non basta quindi leggere la letteratura di quegli anni, ma bisogna “capire come oggi gli artisti cercano di reinterpretare quel periodo”.