Sul piano strettamente cinematografico, la conclusione della kermesse veneziana stimola alcune riflessioni a caldo. Partiamo inevitabilmente con un commento ai premi; meritatissimi e in un certo senso “annunciati” i primi tre riconoscimenti, il Leone d’oro Roy Andersson (che avevamo intervistato a Venezia proprio qualche giorno fa), con il suo The Pigeon Sat on a Brench Reflecting on Existence, il gioiello di Konchalovsky The Postman’s White Nights e soprattutto il capolavoro (perché di capolavoro si tratta, senza troppo margine di discussione) The Look of Silence di Joshua Oppenheimer.

Alba Rohrwacher riceve la coppa Volpi per Hungry Hearts di SAverio Costanzo. Foto: Ansa
Spiazza francamente il doppio riconoscimento al cast del film di Costanzo, Hungry Hearts: Adam Driver è sicuramente bravo ed efficace, ma ben più di lui ci sarebbero sembrati meritevoli lo strepitoso Elio Germano de Il giovane favoloso o il Michael Keaton di Birdman. Anche Alba Rohrwacher non ci ha convinto fino in fondo, ma è comunque un premio che fa bene al cinema italiano e che completa l’en plein della famiglia Rohrwacher, dopo il premio speciale della giuria alla sorella Alice all’ultimo festival di Cannes come regista de Le meraviglie. Meritatissimo il premio Mastroianni per l’attore giovane Romain Paul, protagonista di Le dernier coup du marteau della regista francese Alix Delaporte.
Il termometro del mondo
Complessivamente si è trattato di una buona edizione, povera di grandissimi nomi e di glamour ma ricca di qualità. Sul piano dei contenuti e delle opere scelte, non possiamo che approvare una simile direzione. Un festival di questo livello deve essere un luogo di scoperte, di conferme e di folgorazioni e non una sfilata di anteprime stampa di opere destinate ad apparire in sala di lì a poco.
In questo senso, l’edizione della Mostra appena andata in archivio ci consegna una grande “scoperta” come il regista turco tedesco Kaan Müjdeci, autore del bellissimo Sivas, esempio di bel “cinema della crudeltà” tra le aspre montagne dell’Anatolia; ci ha raccontato la fertilità del nuovo cinema iraniano, che sembra aver superato brillantemente l’invecchiamento della generazione dei Kiarostami e dei Makhmalbaf, e ci ha regalato – nella sezione Orizzonti – una vera perla come Melbourne, della bravissima e promettente Nima Javidi e nel concorso principale il film ad episodi Ghesseha (Tales) di Rakhshan Banietemad, giustamente premiato per la miglior sceneggiatura. Sono arrivate conferme dal cinema indipendente americano (Heaven Knows What nella sezione Orizzonti su tutti e Manglehorn di David Gordon Green nel concorso principale) e da quello mainstream, che ci ha proposto il miglior film della carriera di Inarritu, Birdman e la conferma di quello che Roger Ebert aveva definito “il miglior regista americano del nuovo millennio”, Ramin Bahrani, che ha presentato l’ottimo 99 Homes.

Mario Martone ed Elio Germano a Venezia
Il cinema italiano ha vissuto una parentesi interlocutoria, in controtendenza rispetto a quanto visto nelle passate edizioni: poco, pochissimo di interessante si è visto nelle sezioni minori, mentre il livello dei tre film in concorso si è rivelato mediamente buono, con i picchi di Hungry Hearts di Saverio Costanzo e de Il giovane favoloso di Mario Martone. È presto per comprendere quali indicazioni trarre da questo dato, i prossimi mesi ci forniranno elementi più precisi.
Ragionando in termini di temi raccontati e ricorrenti, come sempre notiamo come un festival di questa importanza sia straordinariamente efficace nell’intercettare angosce e sentimenti collettivi che attraversano le differenti aree del mondo e proprio per questo motivo abbiamo assistito ad un’edizione estremamente cupa, scura, severa. Il cinema americano ci è sembrato ad esempio proteso verso una potente riflessione sul “senso di colpa” e su due aspetti che evidentemente scuotono profondamente la coscienza collettiva degli States: la guerra e le costanti speculazioni finanziarie.
Significativo che queste riflessioni vengano articolate proprio dai due film più “mainstream” in concorso, Good Kill di Andrew Niccol e 99 Homes di Bahrani. Il primo sposta le frontiere classiche del war movie raccontando di un pilota di aerei che bombarda l’Afghanistan pilotando droni dalla poltrona del suo ufficio, fino a che il senso di colpa lo divora; il film di Bahrani, invece, racconta con grande impatto emotivo di come in questi anni di crisi, mentre molte persone hanno visto la propria vita distrutta, le banche, di fatto, hanno vissuto gli anni di maggiori prosperità.
La guerra era tra l’altro presente in ben cinque film della sezione principale, rappresentata nella sua crudezza soprattutto dallo sconvolgente Nobi di Shinya Tsukamoto, terrificante rappresentazione della follia senza ritorno in cui precipita l’uomo quando si trova a combattere guerre prive di alcun senso. Conflitti etnici e rivendicazioni popolari: ciò che sta accadendo in molte zone del mondo, a Gaza in primis, si riflette in film che ci hanno raccontato altre tragedie assolute di popoli senza terra o spaventosamente cacciati da esse, da The Cut di Fatih Akin, che per la prima volta porta sullo schermo il genocidio armeno, fino a Loin des Hommes, con uno splendido Viggo Mortensen protagonista di un film che parla con toni critici dell’occupazione francese dell’Algeria.
Ci sarà tempo nei prossimi giorni per approfondire ulteriormente le indicazioni che provengono da questa edizione della Mostra del cinema di Venezia. Per ora, ci limitiamo a rilevare come sia stata un’edizione dai due volti: quello opaco e scuro dell’austerity, che ha ingrigito l’abituale patina glamour della kermesse del Lido, e quello più positivo del tanto buon cinema che abbiamo avuto modo di vedere.
La mostra dell’Austerity
La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica è il festival più antico del mondo. Seppur venga braccato da kermesse con un mercato forte quali Berlino, Toronto, Sundance e Cannes, ancora nessun festival cinematografico era riuscito a scalfire la scelta qualitativa delle pellicole, abbinata alla mondanità che si svolge in luoghi incantevoli.
Al Festival di Venezia si esplora il panorama più interessante della cinematografica contemporanea mondiale, con film indonesiani, iraniani, cinesi, giapponesi, oltre che europei ed americani. I party che accompagnano questa grande manifestazione spesso si svolgono in palazzi patrizi, orgoglio della nostra storia e propensione al bello. Camminare su un terrazzo veneziano, tra affreschi e damaschi, affacciandosi dalle finestre sui grandi canali o i campi, è indubbiamente insuperabile per qualsiasi altra kermesse.

Ingresso in Sala Grande
Le location protagoniste di queste feste sono state l'Hotel Danieli, l'Hotel Cipriani, la Palazzina G, l'Hotel Excelsior, l'Hotel Bauer, l'Hotel Centurion, il Molino Stucky, Palazzo Rocca Contarini Corfù, Palazzo Vendramin Calergi, sede del Casinò di Venezia, e molte altre. Tante anche le star hollywoodiane come Michael Keaton, Al Pacino, James Franco, Emma Stone, Milla Jovovich, Uma Thurman che hanno sfilato sul red carpet alimentando il glamour della kermesse.
Tuttavia l'austerity ha influito sull'umore della 71ª edizione del festival, che non ha brillato per happening particolarmente significativi e non a caso l'affluenza rispetto alle edizioni precedenti è diminuita notevolmente. Neanche l'allarme bomba (avvenuto il 4 settembre), quando è stata evacuata la Sala Grande del Palazzo del Cinema del Lido a causa di uno zaino sospetto, ha dato sprint alla 71ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica 2014, impostata come un dignitoso CineForum, con qualche sprazzo di mondanità.
Forse questa edizione passerà agli annali grazie al prezzemolino James Franco, venuto a ricevere il Premio Jaeger Le Coultre, che ha trasformato l'evento in un happening. James infatti ha unito l'utile al dilettevole: è venuto al festival come attore e regista dell'adattamento cinematografico del romanzo di Willam Faulkner The Sound and the Fury (L'urlo e il furore), e ha girato una scena del suo prossimo film, Zeroville. Franco si è presentato sul red carpet con i Ray Ban, rasato a zero, con un tatuaggio sulla nuca, saltuariamente coperto dal cappellino da baseball firmato "Bukowski", con baffoni e un look anni '70. Sul palco della Sala Grande, il direttore della Mostra del cinema, Alberto Barbera, in abito scuro e papillon lo ha chiamato Isaac Jerome e gli ha consegnato un "premio speciale della giuria per l'Arte, il montaggio e la visionarietà." James ha ritirato il premio e poi ha svelato l'arcano: la messa in scena era legata alle riprese del suo nuovo film, ambientato durante Venezia 35, ovvero l'edizione del 1977 che non ha mai avuto luogo. Al termine del coup de théâtre James ha ritirato il vero premio Jaeger Le Coultre.
Appuntamento tra un anno per capire se questa scelta di “severità” autoriale è una strada definitiva o solo una contingenza dettata dalle asperità dei tempi.
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