Una discesa nel Maelström, senza Edgar Allan Poe ma con più vortici di vite, volti, storie, battaglie. La venticinquesima edizione dello Human Rights Watch Film Festival 2014 – presso l’IFC e il Film Society of Lincoln Center di New York fino al 22 giugno – quest’anno sembra smarcarsi dal filone “controcultura” a campo aperto (troppo aperto: certe sezioni sembrano fatte solo per filmmakers e nicchie di spettatori) e cerca un’uso del linguaggio cinematografico “per tutti”, nel tentativo di allargare lo sguardo e trasformare l’evento dedicato ai diritti umani in un oggetto intriso di senso e d’osservazione, meno trascendentale, più politico e critico. Moderno, forse.
La linea LGBT (Lesbian, Gay, Bisexual, and Transgender) del festival ci porta dritti nel
Immagine di Born This Way
Camerun, là dove 8 anni fa ci si domandava chi dovesse essere incluso nella lista ufficiale dei gay, da vera caccia alle streghe, tra reati per chi aveva rapporti con persone dello stesso sesso e terrore di retate notturne. Ad aprire la stagione, nel 2006, sono stati proprio quegli organi di stampa che dovrebbero stare dalla parte dei deboli, proteggerli, quindi il quotidiano La Méteo, seguito da L’Anecdote e Nouvelles d’Afrique, con titoli in prima pagina come “Gli omosessuali sono tra noi”, oppure “Devianza: ecco l’elenco completo”, e giù la lista di ministri, star, imprenditori, vescovi… Nomi e cognomi. A suonare il campanello d’allarme, la morte di Jean-Claude Roger Mbede, uomo-simbolo della lotta per i diritti degli omosessuali: era stato arrestato nel 2011 per aver spedito un messaggio d’amore ad un funzionario della presidenza del Camerun; è morto di cancro a 35 anni dopo aver ottenuto la libertà provvisoria (il carcere per gli omosessuali in Camerun è fino a 5 anni). Con Born This Way i registi Shaun Kadlec e Deb Tullmann hanno ottenuto accesso alle vite quotidiane di quattro giovani gay residenti in Camerun (nella parte più underground). 24 ore su 24 a contatto con la dura realtà locale, così da restituire un quadro-senza-fantasmi dell’Africa attuale e criminosa.
My Child di Can Candan ci porta al cospetto, invece, di un coraggioso gruppo di madri e padri in Turchia, che lottano per i diritti dei loro figli e delle proprie famiglie. Non solo hanno accettato l’omosessualità in casa, ora condividono la loro esperienza luminosa con altre persone e ne parlano liberamente in pubblico. Vedere undici genitori ridefinire il concetto di accoglienza e amore, attivismo e lotta per l’uguaglianza, in marcia contro l’omofobia più esplicita, è un’elaborata cornice politica, uno zoom verso buone, solide premesse per un mondo senza mavericks e paure. Il cinema salva i diritti umani molto più in fretta della politica.