Questa è la storia di un regista a cui nessuno dava fiducia, di un film senza budget, girato in 11 giorni per 8 ore al giorno, di attori pagati dal regista senza fiducia del film senza budget, perché “nonostante tutto noi volevamo così”. Questa è una favola che parla di successo, ma posa le sue radici su quella frustrazione che ti costringe a crederci di più e con più forza.
C’era una volta, e c’è ancora, un promettente ragazzo romano che oggi ha 39 anni. Frequenta la facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma e subito si mette in luce realizzando video e cortometraggi di qualità. Approda al mondo della pubblicità, si fa le ossa con gli spot e uno stile veloce ed essenziale. Ma la gavetta non finisce mai e Ciro si mette nella condizione di chiudere con quel mondo.
“Io volevo fare cinema – confessa a La VOCE – ma vivevo anche nella frustrazione del non trovare un produttore che credesse in me, che avesse fiducia”.
C’era una storia da raccontare e una volontà di ferro, ma la risposta si trasformava ogni volta in una scusa che in lingua originale suonava così: “Non hai mai fatto un film”. Tradotta, significava: è vero hai esperienza, è vero vieni dal mondo della pubblicità, ma sei alla tua opera prima, non abbiamo garanzie, non vogliamo fidarci, non investiamo su qualcosa che non conosciamo già. Non crediamo nei giovani.
“Ci dissero: è un film senza attori famosi, il regista non lo conosce nessuno, non avete soldi, non avete pubblicità, il tema non interessa e la storia non fa ridere. La gente non va a vedere film così. Non capivo a questo punto a cosa servisse fare il produttore, non sono forse loro che dovrebbero scoprire nuove strade, nuovi talenti e nuove vie per fare cinema?”.
Ma Ciro perde poco tempo a lamentarsi e si rimbocca le maniche.
“Di fronte a tutte queste porte in faccia ho deciso di farmelo da solo il film che volevo. Ho riunito un gruppo di amici, anche loro con competenze e abilità che non riuscivano a far emergere. Abbiamo girato per 11 giorni, 8 ore al giorno, pagando gli attori. Per quello ne abbiamo scelti pochissimi, perché di più non ce li potevamo permettere”.
Il film dal titolo Spaghetti Story, prima della distribuzione, viene a costare 15mila euro, un dato che per il mondo del cinema equivale a meno di zero e basta fare un esempio su tutti: solo la prima puntata della fiction televisiva La Squadra costò 500mila euro.
Ma il film non è per niente economico e con inquadrature definite mette a fuoco una realtà italiana che ai giovani costa invece molto cara.
C’è Valerio che attende la grande occasione come attore e intanto si arrabatta con lavoretti di fortuna; c’è Scheggia, molti meno ideali ma idee più chiare su come fare i soldi: spacciando e andando a rifornirsi da un magnaccia cinese che nasconde la droga dentro al maneki neko, il tipico gatto cinese in ceramica che diventa anche l’immagine della locandina del film; c’è Serena, la ragazza di Valerio, che ancora studia ma vorrebbe provare a costruirsi una famiglia, un futuro che si spappola nella precarietà e quando scopre di aspettare un bambino a sbriciolarsi è anche il rapporto tra i due; c’è Giovanna, massoterapista con la passione per la cucina cinese e per i reality; per fortuna, però, c’è anche Mei Mei (nella foto), la prostituta sfruttata dal rifornitore di droga che viene prima liberata da Valerio, poi portata in casa da Giovanna.
Si entra nel campo dell’amicizia, l’elemento di disturbo in un’immobilità fatta di gabbie sociali, che è anche salvezza. I protagonisti si troveranno uniti nell’aiutarla a fuggire, come se l’unica soluzione per superare l’empasse della crisi imperante sia fare qualcosa per gli altri, spostare l’attenzione da se stessi al prossimo, guardare verso fuori per non implodere.
“C’è un po’ di me – spiega il regista- e della co-sceneggiatrice Rossella D’Andrea in ciascuno dei personaggi. Ci siamo ispirati alla storia reale, tutto ciò che abbiamo raccontato è realmente successo se non a noi a persone a noi vicine. Abbiamo voluto documentare qualcosa che conosciamo bene senza darci troppi obiettivi o senza voler veicolare troppi messaggi. Abbiamo anche lasciato che fossero gli stessi personaggi a parlare, a raccontare la vita della nostra generazione”.
Il titolo però non trova riscontro nella trama.
“Fa riferimento a un modo tutto italiano di fare le cose, gli spaghetti sono un piatto semplice, economico, anche povero se vogliamo, ma non per questo privo di creatività, ingegno, passione. Il mio voleva anche essere un invito a non lasciare che le storie restino nei cassetti in questo periodo di crisi. I film mainstream non possono essere i soli a vedere la luce. È vero, in Italia farcela è una lotteria, ma se si ha una storia da raccontare, un qualcosa di personale, se si è se stessi senza tentare di piacere ai vari produttori, allora bisogna portare avanti la propria idea con coraggio. È quello che mi sono detto anch’io prima di iniziare a girare Spaghetti Story: oggi la tecnologia ci dà i mezzi per poter raccontare. Meglio raccontare male una storia che non raccontarla affatto”.
Nella favola a lieto fine, la principessa (il film) è pronta nel castello; ora serve il principe azzurro (la distribuzione nelle sale) per far arrivare Spaghetti Story ad un pubblico più ampio possibile.
“Ci siamo impegnati tutti nella distribuzione. Ogni membro della troupe ci ha messo del suo e ha promosso tantissimo questo film”.
I risultati sono stati inimmaginabili. Spaghetti Story, grazie al passaparola e ad una grandissima partecipazione di pubblico, arriva nelle sale di tutta Italia, sbanca il botteghino tenendo testa ai cinepanettoni del periodo natalizio. Incassa in tre mesi più di 65mila euro. Ma non basta, il “Vissero per sempre felici e contenti” vede Spaghetti Story consacrarsi come immagine del cinema italiano all’estero. Il primo marzo il film è sbarcato al Tlc Chinese Theatre di Los Angeles, per arrivare successivamente all’Indipendent Film Festival di El Paso, in Texas. Il 3 aprile è stata la volta del cinema Le Nouveau Latina di Parigi.
“E siamo appena tornati da Gerusalemme e Tel Aviv. Certo, sono contento – conclude Ciro De Caro – ma ogni volta che vado all’estero ci vado con un po’ di timore. Mostriamo sempre il film in lingua originale con i sottotitoli, alcune battute sono anche in dialetto romano, mi chiedo sempre come faranno a capirle. E invece vedo che il pubblico, che sia italiano, americano o di qualsiasi altro paese, ride e si commuove sempre negli stessi punti”.
Ora Spaghetti Story è candidato ai vari concorsi nazionali, dal Nastro d’Argento ai David di Donatello. Ciro non spera nella vittoria, la sua vittoria l’ha già conquistata e si chiama fiducia, quella che serviva per produrre il primo film e che è riuscito a guadagnarsi da solo.
“Adesso, con una pellicola di successo alle spalle i produttori ti guarderanno con altri occhi”, gli dico sorridendo finché lo saluto.
“Sì certo. Ma così è troppo facile”.