Qualche volta le scommesse troppo rischiose purtroppo si perdono. Affidare a Darren Aronofsky, uno dei registi più visionari ma discontinui della nuova generazione americana, un progetto il cui solo budget per le riprese è di 125 milioni di dollari, era un rischio che probabilmente andava calcolato con maggiore oculatezza. Anche perché il cineasta newyorchese aveva già dimostrato di non saper gestire al meglio il rapporto con una major al tempo de L’albero della vita, pastrocchio misticheggiante mal gestito in fase di produzione e scombinato nel risultato finale.
Il suo nuovo colossal Noah sotto molti punti di vista è accostabile a quel film, soprattutto riguardo l’evidente indecisione con cui Aronofsky ha assemblato il progetto: ci troviamo infatti di fronte a un’opera che contiene molte fascinazioni senza però mai imboccare con decisione una strada precisa. Come spesso (troppo?) è capitato nei suoi film, Aronofsky inserisce spunti estetici e trovate narrative all’interno di un’opera/contenitore che non può contenerle senza rischiare di esplodere. È ormai evidente che il regista non sa come contenere i suoi slanci, tutt’altro: anche stavolta manca infatti la sintesi necessaria perché il suo film risulti omogeneo. Seppur visivamente affascinante, in un paio di scene addirittura portentoso, Noah risulta un calderone di ingredienti non amalgamati tra loro a formare un sapore coerente. Le ispirazioni misticheggianti, le trovate visive da New Age che Aronofsky aveva sparso in molti suoi lavoro precedenti – il già citato L’albero della vita ma senz’altro anche Requiem For a Dream e Il cigno nero – trovano nel canovaccio di derivazione biblica perfetto terreno. Il problema è che poi il regista non ha neppure il coraggio di cavalcare fino in fondo queste sue pulsioni cinematografiche, e si limita ad accennarle in una confezione che poi vira esplicitamente verso il film fantastico/catastrofico. Qual era l’idea di partenza? Cosa voleva raccontare Aronofsky con la storia di Noè e dell’Arca? A fine proiezione tali quesiti sono purtroppo rimasti senza risposta…
Un altro evidente demerito del film è quello di sprecare le ottime interpretazioni degli attori a causa di personaggi costruiti senza una logica interna, i quali nel corso della storia cambiano in maniera illogica. Su tutti Russell Crowe, attore di razza costretto a impersonare un protagonista che contiene al suo interno almeno tre (contrastanti) anime, col conseguente problema di non risultare psicologicamente credibile. Appena meglio va al cast di supporto: meritano segnalazione un Anthony Hopkins più misurato del solito e la sempre più brava Emma Watson, attrice che matura film dopo film.
Il cinema di Darren Aronofsky è composto da una potenza visiva strabordante che si accompagna con una linea nascosta di presunzione. L’unico lungometraggio in cui è veramente riuscito a incanalarne entrambe in un discorso filmico preciso è stato The Wrestler: se Noah avesse avuto la stessa lucidità espositiva e la stessa coerenza, sarebbe stato una di quelle opere da ricordare negli anni. Così non è successo.