“La domanda, ora, è se il documentario, con il suo potenziale di raggiungere milioni di persone invece di una stanza alla volta piena di ascoltatori, riesca a compiere il suo lavoro”. Scriveva così Andrew C. Revkin sul New York Times, augurandosi che An Incovenient Truth dell’ambientalista Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti, riuscisse a rompere il muro del suono e del cinema.
A partire dal 2007 è boom di cine-progetti a tema ambientalista: dall’allarme per il surriscaldamento del pianeta agli scempi del sistema agricolo (Food Inc.), dal petrolio e l’industria delle auto secondo Josh Tickell (Fuel) all’oro nero dell’Ecuador che avvelena la foresta amazzonica e mette in ginocchio gli indigeni (Crude). Fino a Coal Rush, dei filmmaker italiani Lorena Luciano e Filippo Piscopo, costato 200.000 dollari, co-finanziato tra gli altri dal NY State Council for the Arts, nel quale si racconta come il monopolio dell’industria carbonifera, nel cuore degli Appalachi, neghi il diritto all’acqua potabile ad intere comunità. Da qui, la causa legale della popolazione (oltre 700 nuclei familiari nella Virginia Occidentale) e le preoccupazioni per le sostanze tossiche nell’acqua dei rubinetti degli americani, la povertà rurale, presunti illeciti societari e le lacune del governo.
Una testimonianza sull’America remota e dimenticata dai media, ma non dai festival impegnati come il Rated SR Film Festival (Quad Cinemas, New York) che ha appena assegnato il Social Justice Award a Coal Rush.
Al centro del lavoro di Luciano e Piscopo ci sono, da una parte, gli interessi della compagnia Massey Energy, accusata di aver propagato liquami derivanti dalla lavorazione del carbone nelle acque della Virginia, e dall’altra, le popolazioni locali alle prese con tubi di scarico, rubinetti, vasche da bagno che diventano miniere permanenti, bruciano la pelle umana, provocano malattie irreparabili. Un’immagine del film ritrae persino un neonato immerso nelle acque putride e nerissime durante il bagnetto in casa.
Gli Stati Uniti dispongono dei più grandi giacimenti di carbone al mondo (al secondo posto troviamo la Russia, al terzo la Cina) mentre circa il 50% in media dell’energia americana dipende dal carbone (oggi siamo attorno al 42%, grazie alla campagna di sensibilizzazione imposta dall’amministrazione Obama, pro energie rinnovabili). Di fronte alle barbarie dell’industria carbonifera, si è irrobustito il protocollo per salvaguardare l’ambiente divulgato dall’EPA, l’agenzia federale per l’ambiente.

Lorena Luciano
“Una tragedia ambientale e umana come quella che raccontiamo in Coal Rush – dichiara Lorena Luciano – poteva essere evitata con le debite misure di smaltimento dei rifiuti tossici da parte di una compagnia che, invece, ha messo i profitti davanti a tutto”. D’altronde, “in America”, come in Italia, “le grandi corporation simboleggiano un grosso introito per le casse dello Stato, che spesso chiude un occhio sui costi ambientali dell’industria – prosegue Luciano – basti citare la diossina a Marghera o l’amianto di Casale Monferrato”.
Nell'estate 2011, dopo 7 anni di contenzioso, la questione si è chiusa con un risarcimento di 35 milioni di dollari. La Massey Energy non ha mai ammesso le proprie responsabilità e il caso è stato assegnato dalla Corte Suprema a un Mass Litigation Panel.