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March 23, 2014
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March 23, 2014
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L’amore italo-americano a Broadway commuove le “Francesche” della vita reale

Chiara BassobyChiara Basso
Time: 3 mins read

I ponti di Madison County vince anche la sfida con Broadway. La storia d’amore tra un’italiana emigrata negli States nel dopoguerra e un fotografo americano del National Geographic riesce a catturare gli spettatori al Gerald Schoenfeld Theater, tanto quanto in precedenza avevano fatto il libro, bestseller di Robert James Waller pubblicato nel 1992, e il film omonimo, diretto e interpretato tre anni dopo da Clint Eastwood che aveva voluto a tutti i costi al suo fianco Meryl Streep.

La forza è quella data da una storia semplice che potrebbe succedere a chiunque, ma che di fatto raramente accade. Ingredienti perfetti per il coinvolgimento garantito da parte del pubblico soprattutto se formato, come mi è accaduto di notare allo spettacolo del pomeriggio a cui ho assistito, da donne di mezza età o over 60, italiane o italo americane, proprio come Francesca, la protagonista.

Ma quella rottura della quotidianità che sfocerà in un amore poi languidamente coltivato in segretezza e solo nella memoria per salvare valori come la famiglia e il buon senso di quegli anni – siamo nel 1965 – non è facile da portare su un palco perché deve essere giocata con potenti sfumature fatte di gesti, occhiate, mani che sfiorano al momento giusto. Il tutto su uno sfondo ordinario, come potrebbe essere quello di una casalinga dell’Iowa divisa tra orto, cucina e chiacchiere con la vicina su figli e mariti, e un arco temporale assai breve, quattro giorni, che basta però ai protagonisti, l’Italiana sposata a un americano Francesca Johnson e il fotografo Robert Kincaid, per innamorarsi.

fotoCerto, cosa non facile superati i quaranta e cosa ancora meno facile è rendere tutto ciò a teatro. E invece è qui che la sfida viene vinta dal regista Bartlett Sher prima di tutto grazie ai due bravi protagonisti, Kelli O’Hara, attenta a parlare sempre con accento italiano marcato al punto giusto senza essere macchietta, e l’aitante Steven Pasquale, convincente sia in camicia che senza, come più volte gli viene richiesto dal copione di Masha Norman con musiche di Jason Robert Brown. Da segnalare anche la scenografia, classicamente verosimile, alla Broadway, ma sottoposta a cambi continui e rapidi attraverso gli stessi attori che entrano sul palco portandosi appresso pezzi di scenografia in piena naturalezza. E sullo sfondo l’immutabile vastità dei campi di grano dell’Iowa in cui la protagonista si sente prigioniera e svuotata dei suoi sogni da ragazza.

Spesso i piani temporali e geografici si sovrappongono, ma anche in questo caso lo spettatore riesce a stare al gioco senza sforzo. E perfino scena e pubblico talvolta si sovrappongono con i protagonisti che sfondano la linea ideale che separa i due piani mentre gli attori minori rimangono quasi sempre presenti ai lati della scena come pubblico ideale o coro greco silente.

Non mancano luoghi comuni sull’Italia e gli italiani ma su cui si scherza bonariamente come quando il marito di Francesca ricorda “gli italiani pigri” incontrati quando si trovava in Italia come soldato durante la Seconda Guerra Mondiale, e dove ha conosciuto la futura moglie. Assai più grave, invece, quando Francesca nomina Chiara, la sorella dai dubbi costumi rimasta in Italia, e si lascia scappare un “ormai sarà al quarto marito”. Svista storica e culturale non di poco conto visto che allora il divorzio in Italia non era stato ancora legalizzato.

L’attrice ogni tanto ci ricorda nelle movenze l’interpretazione di Meryl Streep al cinema che invece aveva creato la sua Francesca, per cui aveva ricevuto una nomination agli Oscar, sul ricordo di un’immigrata italiana sposata a un americano che durante la sua infanzia abitava nel suo stesso quartiere in New Jersey.

Eppure, la O’Hara, quattro volte nominata ai Tony Awards, finisce per conquistarci comunque con quella sua voce da soprano che regala a Francesca quasi una tragicità da personaggio di opera più che da musical. E le “Francesche” in sala finiscono per commuoversi. Appena si accendono le luci, mi chiedono se sono italiana. Forse una domanda che tenevano per sé fin da quando si era levato il sipario all’inizio. Per poi dirmi che sono chi siciliana, chi bergamasca. E al loro fianco i mariti americani, contenti che dalle loro parti non siano mai passati affascinanti fotografi. Ma chissà. Piani narrativi e reali che si incrociano anche a luci accese.

 

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Chiara Basso

Chiara Basso

Giornalista, esperta di comunicazione, ma soprattutto amante delle piccole storie che raccontano grandi realtà. Mi sono auto-inviata a New York nel 2010 dopo aver lavorato per quattro anni nel settore Esteri dell'agenzia stampa Apcom e aver collaborato da freelance per Euronews a Lione, in Francia. Nella Grande Mela ho contribuito al lancio della trasmissione radiofonica America 24 de Il Sole 24 Ore, ho collaborato con La Stampa, Radio Rai, Il Secolo XIX, Sette del Corriere della Sera, Gioia, Flair e Amica parlando dei temi più disparati dalla politica alla moda, dalla finanza al cinema. Sono troppo curiosa per occuparmi solo di un tema. Nel 2012 ho viaggiato attraverso gli Stati Uniti con una Fiat 500 andando alla caccia dell' "America vera" scrivendo reportage sulla ripresa economica e su cosa significa oggi l'American Dream. Nel 2017 ho ottenuto il mio secondo master, questa volta in Corporate Communication al Baruch College di New York, dopo quello in giornalismo alla IULM in Italia. Oggi collaboro con Radio Monte Carlo e Jesus (Ed. San Paolo), dove mi occupo di una rubrica su religione e politica in Nord America. Mantua me genuit, ma New York mi ha adottata.

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